La Prima Repubblica cominciò ad inabissarsi nel pomeriggio del 10 giugno 1991, quando il Viminale comunicò che il referendum per l'abolizione delle preferenze, promosso da Mario Segni, aveva trionfato con il 95,6% di sì. Votando contro il voto di preferenza, indicato come una delle cause principali della corruzione e del cosiddetto «voto di scambio», gli italiani votarono contro il sistema dei partiti, peraltro destinato da lì a poco a crollare sotto i colpi della magistratura.
L'Italia voltò pagina, o almeno credette di farlo, con una legge elettorale maggioritaria, il collegio uninominale, l'abolizione della preferenza e, a livello locale, l'elezione diretta di sindaci e governatori. Oggi, per salvare la Seconda Repubblica dal naufragio, c'è chi propone la strada inversa: una legge elettorale proporzionale con il voto di preferenza. Ma, come se il passato volesse ammonirci a non riaprirgli le porte del presente, l'esplosione dello scandalo alla Regione Lazio ha drammaticamente riportato in primo piano il problema. Franco Fiorito è stato infatti eletto con la bellezza di 26.217 voti personali: «Scelto dagli elettori, come si direbbe oggi - ha polemicamente osservato Giancarlo Galan - E se si fosse votato un mese fa, prima dell'esplodere dello scandalo, sarebbe stato certamente rieletto».
Intendiamoci: i corrotti esistono in qualsiasi sistema elettorale (e ancor più dove non si vota affatto), e l'idea molto italiana di risolvere i problemi della politica ricorrendo alla cosmesi istituzionale si è rivelata in ogni senso fallimentare. Una buona legge elettorale può aiutare la buona politica, ma non riuscirà mai ad ostacolare la politica cattiva. E figuriamoci la corruzione. Però è anche vero che la peculiarità del voto di preferenza (quasi un unicum nel mondo occidentale) consiste nel fare campagna elettorale contro i propri nemici interni, anziché contro l'avversario esterno: e moltiplicare i nemici significa anche moltiplicare le spese.
A difendere con forza il ritorno al voto di preferenza c'è prima di tutto l'Udc, e il motivo è per dir così storico: la Democrazia cristiana utilizzò massicciamente le preferenze, in tutte le sue pieghe, per moltiplicare i consensi. Ogni corrente aveva i propri candidati e i propri voti, e il partito era, a tutti gli effetti, una confederazione di movimenti, gruppi di interesse e potentati locali. La Sicilia di Cuffaro e Lombardo (provenienti entrambi dall'Udc) è tutto ciò che resta del vasto impero democristiano: ma è una reliquia emblematica.
Nel centrodestra, per quanto è dato capire in un momento ancora delicato, quando l'accordo sulla legge elettorale un giorno appare a portata di mano e il giorno dopo svanisce nel nulla, a sostenere il voto di preferenza sono soprattutto gli ex An: e la ragione è facilmente intuibile. Come insegna il modello democristiano, le preferenze tendono a costituire un sistema feudale e carolingio: il leader è il capo del partito, ma poco più che nominalmente; ogni feudatario - o, come si usa dire oggi, ogni colonnello - gestisce in proprio il territorio che ha conquistato (o che gli è stato assegnato). È ragionevole che, nello sfarinamento del Pdl, i colonnelli di An cerchino una zattera di salvataggio, confidando in un radicamento maggiore nel territorio. Ma proprio le forme di quel radicamento, come purtroppo dimostra lo scandalo laziale, rischiano di vanificare l'obiettivo che a parole tutti proclamano, e cioè un rinnovato rapporto fra eletti ed elettori.
A sinistra le preferenze non piacciono e non sono mai piaciute, di nuovo per cause storiche. Nel vecchio Pci era il partito a gestire i flussi di preferenze, indirizzandoli verso i candidati da eleggere; in generale, i deputati comunisti venivano eletti con un decimo delle preferenze necessarie ad un democristiano per entrare alla Camera.
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