Quando la Germania si salvò con i soldi della Bundesbank

Quando la Germania si salvò con i soldi della Bundesbank

Era l'inizio del 1975. La crisi del petrolio stava colpendo duramente l'economia: gli analisti prevedevano una severa contrazione del Pil, gli investitori sfiduciati chiedevano tassi sempre più alti per comprare obbligazioni pubbliche e private. Fu allora che la banca centrale, sfidando i dubbi del governo, decise che era venuto il momento di intervenire, acquistando sul mercato titoli di Stato e titoli di aziende controllate dallo Stato.
Ad acquistare non era una banca come le altre. Era l'immacolata Bundesbank, critica severa di ogni commistione tra politica fiscale e politica monetaria. Eppure, quando negli anni Settanta la Germania si trovò di fronte un periodo di turbolenza, l'istituto di Francoforte non ci mise molto a scendere in campo e a fare quello che oggi impedisce al numero uno della Bce Mario Draghi. Certo le differenze tra oggi e allora non mancano. Ma sicuro è anche l'imbarazzo odierno degli uomini del governatore Jens Weidmann di fronte a quella che appare come una contraddizione non irrilevante: la risposta a chi chiedeva informazioni è stata che non c'era alcuna intenzione di fare commenti.
A citare per primo il peccato dei puristi della stabilità (peraltro non l'unico, visto che un'altra operazione analoga è segnalata alla fine degli anni '60) è stato un economista tedesco, Peter Bofinger, che fa parte del consiglio dei saggi del governo Merkel. Qualche giorno fa un'analista di Bnp Paribas, Evelyn Herrmann, ha raccontato nei dettagli la vicenda.
La premessa è la cosiddetta stagflazione, il mix di inflazione e stagnazione economica che mise ko gran parte delle economie europee negli anni '70. Per la Germania tassi di interesse superiori al 10% stavano mettendo a repentaglio il futuro del sistema industriale. «I politici erano contrari all'operazione», spiega Herrmann nella sua ricerca. «Ma il presidente della Bundesbank Karl Klasen aveva “casualmente” accennato all'acquisto dei bond in una conferenza stampa, e dovettero fare buon viso a cattivo gioco». Interessante la motivazione con cui il capo economista della Buba di allora giustificò la mossa: «Possiamo ricorrere a operazioni di mercato aperto (e cioè comprare bond, nda) per regolare il mercato monetario, non per finanziare il deficit pubblico».
È esattamente la tesi del Draghi di oggi, che più volte ha chiarito il suo pensiero: lo statuto della banca centrale ci impedisce di fare operazioni di salvataggio di singoli Paesi, ma ripristinare un corretto sistema di trasmissione del meccanismo dei tassi di interesse rientra tra i nostri poteri. È anche la posizione della maggioranza dei componenti gli organi direttivi della Banca centrale europea che sembrano riconoscere che attualmente il problema (Grecia a parte) non è la tenuta del bilancio dei Paesi in difficoltà, ma il nervosismo degli investitori che chiedono premi sempre più alti per paura di un'implosione dell'euro. Gli unici a non essere d'accordo sono proprio i tedeschi, che almeno nelle dichiarazioni fatte trapelare ai giornali, hanno sempre presentato l'acquisto di titoli di Stato da parte della Bce, come una sorta di tabù, violazione imperdonabile e moralmente riprovevole delle regole di comportamento del buon banchiere centrale.
Adesso, il riemergere della vecchia storia degli anni 70 potrebbe indebolire la posizione intransigente e segnare un punto di vantaggio a favore di Draghi. Il prossimo match è previsto all'inizio di settembre, quando la Banca centrale potrebbe entrare nel dettaglio sui provvedimenti in cantiere. Ma l'esito della partita è tutt'altro che certo. Draghi potrebbe, come il suo predecessore Jean-Claude Trichet, muoversi senza l'avallo tedesco. Mossa rischiosa, secondo molti commentatori e destinata essere pagata nel medio periodo, perché la reazione dell'opinione pubblica tedesca costringerebbe Berlino a un irrigidimento. Oppure l'italiano di Francoforte potrebbe riuscire (ma come?) a strappare il sì di Weidmann e soci.
Quanto alle operazioni spericolate della Buba anni '70, a difenderle è stato Otmar Issing, capofila dei falchi ed ex chief economist della Bce: «È tutto diverso. Non c'è uno Stato europeo e la Bce vuol comprare titoli di questo o quel singolo Stato. La Fed americana non compra bond del Texas o della California».

Sia per quantità che per qualità gli acquisti di allora erano diversi da quelli ipotizzati oggi: nel 1975 l'ammontare fu al massimo pari all'1% del Pil e in cassaforte finirono buoni bond tedeschi e non titoli di qualche traballante Stato mediterraneo. Tutto giusto. Però adesso sappiamo che anche la Bundesbank ha peccato.

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