Se la Lega «anti casta» alza le barricate per le Province inutili

Può apparire incomprensibile l’ostinazione con cui la Lega continua a difendere l’esistenza delle Province, ossia del più inutile tra gli enti inutili. Tale difesa dell’esistente riesce tanto più irragionevole in una fase storica che obbliga a tagliare le pensioni e a innalzare l’età pensionabile, mentre il tessuto produttivo della Lombardia e del Veneto soffre come non succedeva da tempo a causa di una tassazione senza eguali al mondo.
Un’analisi politica di taglio realista, però, può aiutare a capire la situazione.
Se oggi la Lega si mette di traverso dinanzi al più serio progetto di sfoltire l’apparato amministrativo italiano e se addirittura difende a spada tratta l’esercito politico-burocratico che dissangua i conti pubblici e pesa come un macigno sulle piccole imprese del Nord, la ragione va trovata nel fatto che il partito di Bossi considera suo interesse primario il controllo delle amministrazioni provinciali. L’idea - certamente da vecchia politica, e in qualche modo assai «democristiana» - è che se un leghista è alla guida dell’amministrazione provinciale di Vicenza o Novara il movimento può orientare in maniera più efficace la vita economica e sociale, accrescendo il proprio radicamento.
Per giunta, a seguito delle ultime riforme le fondazioni bancarie sono gestite da uomini nominati appunto dalle Province: e cioè dai partiti che le controllano. Ne discende che Bossi ritiene di poter utilizzare tutto ciò per orientare secondo i suoi progetti la vita economica.
Se la Lega fosse in grado di vincere nei capoluoghi forse non avrebbe tanto a cuore le province, ma le cose non stanno così, poiché una parte significativa del voto leghista è concentrata proprio nei piccoli centri. Raccogliendo più voti in Brianza e in Valcamonica che non a Milano o a Padova, il Carroccio è forte soprattutto nelle elezioni provinciali. Tanto più che si tratta di competizioni che non hanno mai nulla di amministrativo (date le pochissime competenze di questi enti) e sono sempre giocate in termini politici. Sono competizioni nelle quali il sogno dell’indipendenza pesa assai più della qualità dell’asfalto.
L’abolizione delle «cadreghe» provinciali potrebbe aiutare a ridurre le imposte e dare una boccata d’ossigeno alle aziende. Tagliando poltrone e posti pubblici si potrebbe inoltre avviare davvero quel processo di liberazione della società italiana che, vent’anni fa, era al primo posti nei programmi leghisti.
Perché qui sta il paradosso. La Lega piace nei piccoli comuni della montagna e della pianura, proprio dove resta viva la speranza della secessione e dove più forte è la volontà di lasciarsi alle spalle la solita Italia, ma poi tale consenso è utilizzato per difendere quello statalismo che la base leghista desidererebbe, giustamente, veder spazzato via una volta per tutte.

Se c’è urgenza di un vero dibattito all’interno della Lega, è su questi temi che deve svilupparsi, assai più che sul nome del prossimo capogruppo alla Camera, o sui conflitti tra i fedelissimi di Bossi e quelli di Maroni.

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