Stragi del '93, pm smentiti: cade il teorema su Forza Italia

La sentenza di Firenze sulle stragi del ’93 esclude collusioni degli azzurri. Certificata la trattativa dello Stato con Cosa Nostra

Stragi del '93, pm smentiti:  cade il teorema su Forza Italia

Roma - Una conferma e una smentita, pesanti come macigni. Due cose emergono con nitidezza dalla motivazione della sentenza di condanna all’ergastolo del boss di Brancaccio Francesco Tagliavia per le stragi del ’93: la trattativa tra Stato e mafia «indubbiamente ci fu» e Forza Italia non è stata «mandante o ispiratrice delle stragi», né Marcello dell’Utri è stato il referente di Cosa nostra presso Silvio Berlusconi.

La Corte d’Assise di Firenze legge le prove e disegna uno scenario inquietante degli anni in cui a Palermo l’omicidio Lima aprì una stagione di sangue per costringere lo Stato a scendere a patti con Cosa nostra. Una campagna terroristica iniziata con le stragi di Capaci e via D’Amelio e proseguita con le bombe di Milano, Roma, Firenze.

La trattativa, dicono per la prima volta i giudici, «venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des» e «l’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia». L’obiettivo? Almeno all’inizio, «di trovare un terreno con Cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi». Sul piatto, conferma la sentenza, c’era il 41 bis. Ed infatti, un ripensamento sulle misure di inasprimento della detenzione per i capi mafiosi ci fu.
Si tratta di «quei provvedimenti ablatori del regime del carcere duro, che oggettivamente, e al di là di qualsiasi interpretazione o proposito, in quel contesto potevano apparire come sintomo di un cedimento alla mafia».

Questa è la prima certezza della Corte, la seconda è che il partito allora nascente di Forza Italia non era colluso con la mafia. Di prove, si legge nella sentenza, non ce ne sono. Solo dichiarazioni di pentiti senza riscontro, solo ipotesi che rendono credibile al massimo un’ambizione dei boss di trovare nuovi interlocutori in un quadro politico profondamente mutato, non che non possono dimostrare che questo sia poi successo. In particolare, con il partito fondato del Cavaliere.

«Le gravi affermazioni - scrivono i giudici- formulate da alcuni collaboratori» di giustizia «sul senatore Dell’Utri e su di un consapevole appoggio dato alla mafia dallo stesso Silvio Berlusconi e dal movimento politico da lui fondato ne ’93, a quel che consta non hanno ricevuto una verifica giudiziaria, neppure interlocutoria».
E sempre nella motivazione della sentenza del 5 ottobre 2011 si legge, con un chiaro riferimento a Forza Italia: «Non ha trovato consistenza l’ipotesi secondo cui la nuova “entità politica” che stava per nascere si sarebbe addirittura posta come mandante o ispiratrice delle stragi».

Nel processo di Firenze sono stati ascoltati come testimoni anche gli ex ministri dell’Interno e della Giustizia Nicola Mancino e Giovanni Conso e per la Corte dalla «disamina» delle dichiarazioni «di soggetti di così spiccato profilo istituzionale, esce una quadro disarmante che proietta ampie zona d’ombra sull’azione dello Stato nella vicenda delle stragi». «Ombre che questo processo - continuano i giudici - non hanno potuto dipanare».
La ricostruzione, dunque, sarebbe questa: i boss mafiosi, da Totò Riina a Bernardo Provenzano, cercavano appoggi politici «tra la fine del ’93 e i primi del ’94 », in vista delle imminenti elezioni. «Il tramite adatto - dicono i giudici - fu individuato in Vittorio Mangano, ritenuto in grado di interloquire con Marcello Dell’Utri, e questo a sua volta con Silvio Berlusconi di cui si intravedeva l’ascesa politica».

Ma se questa è una certezza, non ce n’è nessuna sull’esito di questo tentativo, solo ipotesi. Così si esprime la Corte d’Assise: «Da un lato, può essere accaduto che i contatti non si fossero estesi ai vertici della politica che si andava affacciando in quegli anni e, dall’altro, che le aspettative di Cosa nostra fossero state alimentate, e questa corte non può dire se con fondamento o meno, da uomini la cui vicinanza a Berlusconi era notoria come appunto Marcello Dell’Utri».

Quanto alla scelta del mafioso Giuseppe Graviano di non rispondere ai giudici che lo interrogavano su Dell’Utri «e su eventuali investimenti effettuati nel gruppo Fininvest e sul movimento denominato “Sicilia Libera”», i giudici se ne sorprendono. «Può essere anche interpretata - scrivono - come una sorta di segnale obliquo lanciato all’esterno».

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