Dall'impegno con Falcone a toga più potente d'Italia

la svolta nella carriera negli anni passati a via Arenula

Roma - Loris D'Ambrosio era il modello di magistrato che Giorgio Napolitano raccomanda spesso alle toghe, quando le bacchetta per certi eccessi: competente, misurato e discreto, senza alcun cedimento al protagonismo.
Il consigliere giuridico del Quirinale, che salì sul Colle nel 2004 chiamato da Carlo Azeglio Ciampi, aveva 64 anni ed era nato nel Frusinate, ad Isola Liri.
Dicono che avesse avuto problemi cardiaci, ma il suo infarto ha colto tutti di sorpresa e ha sollevato inquietanti interrogativi sullo stress accumulato negli ultimi mesi, per il coinvolgimento nell'inchiesta di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia.
Oggi tutti lo ricordano come consigliere del potere, che ha svolto una preziosa opera da tecnico sempre nell'ombra e dal Colle era enormemente influente anche per le nomine di vertice, tenendo i rapporti con il Csm, con i capi delle procure (soprattutto Roma e Milano) e con il ministero, dove con la Guardasigilli Paola Severino ha collaborato strettamente per disegnare il nuovo organigramma. Ma D'Ambrosio è stato, all'inizio della carriera, anche un pm in prima linea e non si è mai fatto attrarre dai riflettori quando, negli anni '80, conduceva l'accusa in grandi processi a Roma contro il terrorismo, in particolare quello nero e la criminalità organizzata della Banda della Magliana.
Così quando ha iniziato la sua collaborazione con Giovanni Falcone, che lo portò al ministero della Giustizia (c'era Martelli) come capo dell'ufficio studi della Direzione generale degli Affari penali, che lui stesso dirigeva. Fu allora che nacque il suo impegno contro Cosa nostra e contribuì alla nascita della Procura nazionale Antimafia e della Direzione investigativa antimafia (Dia), all'introduzione del regime del «doppio binario» per i superprocessi per la grande criminalità e del «carcere duro» per i boss più pericolosi. Con Liliana Ferraro, Pietro Grasso e Giannicola Sinisi doveva formare, nel progetto di Falcone, quel pool di magistrati che in diversi ruoli nelle istituzioni poteva coordinare la lotta alla mafia. A via Arenula rimase dalla fine degli anni '80 al 2001, dando un importante contributo a molte riforme della giustizia e diventando dal 1996 capo di gabinetto di diversi ministri, da Caianiello a Flick, da Diliberto a Fassino, a Castelli.
La carriera in magistratura di Loreto D'Ambrosio era iniziata, dopo la laurea alla «Sapienza» di Roma nel 1970, come pretore a Volterra e proseguita al tribunale di Roma dal 1979, come sostituto procuratore. Si era sposato con una donna schiva come lui e aveva avuto una figlia.
Gli anni fuori ruolo al ministero proseguirono fino al breve ritorno alla toga nel 2001, quando per tre anni fu sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Poi, ancora fuori dal servizio attivo, sul Colle più alto. La sua missione al Quirinale è durata otto anni, come consulente per i problemi della giustizia di Ciampi prima e fu allora che contribuì, tra le polemiche del centrodestra, a bloccare leggi come la Cirami sul legittimo sospetto. Dal maggio 2006 divenne consigliere per gli Affari dell'amministrazione della giustizia di Napolitano. Ancor più potente, come direttore dell'ufficio che cura i rapporti con il Csm, la concessione delle grazie, l'esame delle istanze dei cittadini e lo studio dei provvedimenti di giustizia prima della loro emanazione.
Il suo era un ruolo-cardine, estremamente delicato sia per la formazione delle leggi, sia per la scelta dei vertici degli uffici strategici. Uomo della mediazione, grande conoscitore delle logiche della magistratura e delle sue dinamiche, compresi gli equilibri delle correnti, era legato al Movimento per la giustizia poi confluito con Magistratura democratica nel cartello di sinistra Area.
Nella base delle toghe e tanto più adesso con la Severino a via Arenula, molti lo definivano il «magistrato più potente d'Italia».


Coloro che l'hanno sempre apprezzato o che ora preferiscono presentarsi come suoi estimatori ne parlano come di un «uomo delle istituzioni» e «un servitore dello Stato e della democrazia». Chi lo avversava, invece, descriveva la sua come «una vita al servizio del potere».

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