RomaVedremo Giorgio Napolitano alla sbarra, come testimone nel processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia?
Ieri la Corte d'Assise di Palermo ha giudicato legittima la lista dei 178 testimoni presentata dalla procura, in cui figurano il capo dello Stato, il presidente del Senato Pietro Grasso, l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, l'ex Pg della Cassazione Vitaliano Esposito e l'attuale Gianfranco Ciani.
È un primo sì puramente formale, nel merito saranno i giudici a valutare, caso per caso, tra diverse settimane, nel corso del processo che si aprirà il 27 maggio. Bisognerà vedere, dunque se la testimonianza di Napolitano sarà ammessa, come è successo a marzo per il processo Borsellino, già in fase avanzata a Caltanissetta.
Secondo il codice i giudici dovrebbero ascoltare il Capo dello Stato non certo in aula ma al Quirinale. E non è affatto scontato che l'interessato voglia sottoporsi all'interrogatorio. Né ci sarebbe un obbligo da parte sua e infatti è escluso l'accompagnamento coatto in caso di rifiuto, come ha spiegato sul Corriere della Sera il giurista Michele Ainis, subito attaccato da Marco Travaglio del Fatto.
Non è chiaro, però, quali sono i margini entro i quali potrebbe sottrarsi alla deposizione che riguarda, e questo è un particolare importante, non ciò che Napolitano ha detto ma quanto ha ascoltato da altri e cioè dal suo ex consigliere giuridico Loris D'Ambrosio, stroncato a luglio da un infarto.
Che cosa farà dunque il Capo dello Stato, che a dicembre ha vinto il ricorso alla Corte costituzionale proprio contro la procura di Palermo per le intercettazioni delle sue conversazioni, ritenute illegittime, nell'ambito di questo processo?
Teoricamente, sostengono alcuni esperti, potrebbe sollevare un nuovo conflitto tra poteri dello Stato di fronte alla Consulta, che neppure cinque mesi fa gli ha riconosciuto una sorta di scudo totale, affermando la «riservatezza assoluta» delle sue comunicazioni.
Certamente, la sentenza 1/2013 ha un peso determinante sulle decisioni di Napolitano che riguardano appunto le sue prerogative. Anche se Antonio Ingroia, che ha guidato il pool degli inquirenti palermitani prima della sua entrata in politica, sottoscrivendo la lista dei testi richiesti ha detto che la citazione «non c'entra niente con la vicenda delle intercettazioni».
Secondo i pm, il presidente della Repubblica dovrebbe riferire sulla lettera che D'Ambrosio gli scrisse il 18 giugno. Dopo la clamorosa pubblicazione delle intercettazioni delle sue conversazioni con l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza nel processo palermitano, il magistrato annunciava le sue dimissioni e scriveva: «Lei sa che (il riferimento è a suoi precedenti scritti, ndr) non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi di cui ho detto anche ad altri, quasi preso dal timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». Nelle telefonate D'Ambrosio parlava con Mancino della nomina a numero due del Dipartimento penitenziario di Francesco Di Maggio, che per i pm sarebbe un personaggio chiave nella trattativa e avrebbe manovrato per ammorbidire le condizioni carcerarie dei boss mafiosi. L'ex consigliere di Napolitano aveva seguito la vicenda quando era al ministero della Giustizia e manifestava dubbi in proposito. Ora che lui non può spiegare che cosa intendesse dire nella lettera, i pm vorrebbero porre a Napolitano le loro domande.
Da parte sua il presidente del Senato Pietro Grasso ha detto che si farà interrogare dai pm.
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