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Intesa e Unicredit a prova di «stress»

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Ancora una volta, ieri, la Borsa di Milano è stata la peggiore d’Europa, trascinata al ribasso dai titoli delle banche e delle assicurazioni: queste ormai assomigliano a pericolose zavorre che impiombano le quotazioni dell’intero listino. Piazza Affari ieri ha perso un altro 2,12%, quando Londra e Francoforte hanno chiuso addirittura con il segno più (rispettivamente 0,33% e 0,7%), mentre Parigi è arretrata dello 0,6%, Amsterdam dello 0,13%, Zurigo dello 0,09%. Anche sulla misura dei settanta giorni che ci separano dall’inizio dell’anno, Milano è la peggiore d’Europa e forse del mondo. Per i dati puntuali rinviamo alla tabella pubblicata a corredo dell’articolo; qui è sufficiente rilevare che, con il suo meno 35%, Milano perde dieci punti secchi più di New York, e 12-15 più delle altre piazze europee. Non va, infine, dimenticato, che già nel 2008 c’era stato un tracollo: l’anno per la Borsa italiana era finito con un meno 49%, il peggior risultato dopo Olanda (54%), Cina (meno 65%), Russia (meno 70%), Islanda (95%). Il Dow Jones, nei «famigerati» Stati Uniti, aveva perso «solo» il 36%, il Nasdaq il 43%. Milano, in poco più di 14 mesi, ha bruciato dunque l’85% del suo valore. Un dato pericolosamente prossimo a quello dell’Islanda, Paese andato a gambe all’aria.
I dati sono pessimi. Ma è possibile - si chiedono tutti - che davvero l’Italia sia messa così male? La Borsa rispecchia l’economia reale o va per conto proprio? Davvero le aspettative sull’andamento delle nostre imprese sono così negative? Le risposte non sono univoche, tuttavia le osservazioni sono più d’una. Innanzitutto negli indici della Borsa italiana banche e assicurazioni, i titoli più penalizzati, pesano molto più che negli altri panieri; nell’S&P Mib pesano per il 35%, quando sul Dax tedesco hanno una quota del 20%, mentre a Zurigo, per esempio, la massiccia presenza di titoli farmaceutici e alimentari ha la funzione di antidoto. Poi, il tessuto produttivo del Paese è costituto da piccole e medie imprese dal quale la Borsa è sempre stata fortemente scollata. È vero, a Piazza Affari c’è il segmento Star, più diversificato, che elenca proprio società a minor capitalizzazione: ma la crisi di liquidità lo penalizza, e nemmeno questo riesce a rappresentare una struttura industriale che, nonostante tutto, appare più sana della sua rappresentazione finanziaria.
«Ci sono molte belle aziende del tutto sottovalutate - osserva Luigi Campiglio, professore di politica economica alla Cattolica di Milano -. La Borsa estremizza una situazione deteriorata in tutto il mondo. Negli anni scorsi c’è stato un picco di esuberanza irrazionale, oggi siamo all’opposto. Gli eccessi hanno trasformato la fiducia da fattore positivo in un danno».
Più tecnico Mario Spreafico, direttore investimenti di Citigroup Italia, secondo il quale tutti i mercati scontano in questo momento la «riduzione della leva finanziaria». Si torna cioè a valori meno drogati e più reali. La crisi ha portato a ridimensionare i volumi di strumenti come i derivati, che erano scommesse pure. «Il mercato ormai ha paura del debito, ovunque, e si accanisce contro tutte le società con forti esposizioni. In questo senso le posizioni delle aziende italiane sono più solide, ma il Paese molto indebitato influenza negativamente anche il nostro mercato azionario». Alla Borsa di Milano è ancora in vigore il divieto di vendite allo scoperto, prorogato fino al 31 maggio. Ma gli operatori sono concordi nel riferire che molta speculazione internazionale riesce ad aggirare questo ostacolo operando dall’estero.
Ma perché le banche sono i titoli più colpiti? La risposta di Spreafico è chiara: «Negli ultimi anni hanno fatto utili con la finanza, più che con l’esercizio del credito, il business più antico.

Il mercato sa che nei prossimi anni il modello operativo tornerà a venti, trent’anni fa - depositi e impieghi innanzitutto - e che gli utili si assottiglieranno. Un problema vero delle banche è proprio questo: riconvertirsi e trovare i manager capaci di guidare questa trasformazione verso i servizi più tradizionali».

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