Si dice che da analfabeta a critico d’arte il passo sia breve. Come dalla passione all’avidità. Una sottile linea di demarcazione facilissima da superare ma difficile da tracciare: ci vuole colpo d’occhio, polso fermo, coraggio. E incoscienza. Giornalista e scrittore, 35 anni, Ippolito Edmondo Ferrario è con coraggio e incoscienza mercante d’arte e direttore della Galleria Sacerdoti di Milano, aperta in via Sant’Andrea dal nonno materno, nel 1950. Più di mezzo secolo di esperienza e quattro generazioni di «gente d’arte» che permettono oggi, all’ultimo arrivato, Ippolito Edmondo Ferrario, di svelare il lato oscuro del mondo dell’arte in un’impietosa guida che - come reciterebbe una buona quarta di copertina - nessun gallerista vi farà mai leggere: Il libro nero del collezionismo d’arte, ossia «Come coltivare in tutta sicurezza una passione al tempo stesso nobile e redditizia» (Castelvecchi, pagg. 126, euro 13,50; in libreria dal 22 giugno).
Divertente il circo che esce dal suo libro: semianalfabeti travestiti da esperti, intrallazzatori, critici tromboni, galleristi speculatori, curatori di mostre prezzolati.
«Se ne vedono di tutti i tipi. Ovviamente la maggior parte di chi lavora in questo ambiente è costituita da professionisti seri, ma soprattutto nell’ultima ventina d’anni sono comparsi personaggi inquietanti che si spacciano per esperti grazie a una legislazione in materia che fa acqua da tutte le parti. Chiunque, senza alcuna barriera, può aprire un’associazione per il patrocinio o la tutela di un pittore, meglio se non troppo noto e meglio ancora se molto prolifico, quasi sempre affiancandosi agli eredi dell’artista, e iniziare l’archiviazione delle opere, poi farsi pagare per la catalogazione, magari intascare anche finanziamenti pubblici, e infine specularci sopra… L’associazione diventa col tempo l’istituzione di riferimento per quell’artista e, senza alcuna investitura, decide quali sono i quadri buoni e quali no. E io che ho un’opera dell’artista alla fine devo assoggettarmi al giudizio di quella associazione, o anche di più di una, perché magari due o tre enti si contendono lo stesso “maestro”. La stessa cosa capita con i “critici di riferimento”».
Esempi?
«La mia famiglia possedeva un Hayez, acquistato da mio nonno. Un quadro firmato, pubblicato, universalmente riconosciuto come un Hayez, finito anche sulla copertina di un catalogo. Un giorno un noto critico, professore di Storia dell’arte a Milano, specializzato nel ‘700-‘800 lombardo, cura una monografia sull’Hayez, escludendo l’opera in nostro possesso. Non l’ha voluta neppure vedere. Per telefono ci ha detto che il nostro non era un Hayez. Saltata l’attribuzione ovviamente è crollato il valore. Come Hayez si aggirava sui 200mila euro. L’abbiamo messo in asta a 20mila. E questo solo perché lo ha deciso il “critico di riferimento” di quell’artista. Senza vedere il quadro».
Perché accade?
«Per invidia, interessi personali, vendette... Qualche anno fa organizzano una mostra di Boldini a Padova. Mio nonno era un grandissimo collezionista di Boldini, e il Corriere della sera mi intervista per farmi raccontare la storia della opere di Boldini passate dalla nostra Galleria e dedica all’evento un paginone. Un concorrente ha messo in giro la voce che abbiamo pagato il Corriere per farci pubblicità… Del fatto che la “Galleria Sacerdoti” avesse contribuito già 60 anni fa lanciare Boldini non interessava nessuno. Quello che interessa ormai non sono le opere, ma il documento che le garantisce come autentiche, o almeno dovrebbe».
Dicesi expertise.
«Un pezzo di carta che viene rilasciato spesso da autentici analfabeti o, peggio, da truffatori di professione. Un giorno probabilmente i collezionisti saranno così stupidi che alle pareti appenderanno le expertise e i quadri li lasceranno chiusi da qualche parte».
Ma chi può rilasciare l’expertise?
«Non essendoci una particolare regolamentazione in merito, chiunque: dal restauratore allo studioso fino al trafficante».
Ci si guadagna?
«Scherza? È una miniera d’oro. La famosa associazione di tutela di un artista scomparso di cui le dicevo prima? Bene, appena si fa conoscere nell’ambiente, contatta i possessori delle opere di quell’artista e, con la scusa dell’archiviazione per un catalogo ragionato che non vedrà mai la luce, inizia a periziarle. Un’expertise oggi, una domani… sa quanti soldi si fanno? Con due particolari curiosi. Il primo è che chi fa queste cose spessissimo non è neppure laureato in storia dell’arte, che di per sé non significherebbe niente, ma insomma… gente che magari prima lavorava in banca, o faceva l’autista, che a un certo punto si appassiona di arte. La seconda, è che le attribuzioni di questi cialtroni finiscono per condizionare i valori di mercato degli artisti».
Insomma, tu puoi avere anche un quadro bellissimo e autentico, ma se manca l’expertise non lo venderai mai?
«È una psicosi collettiva ormai. E il guaio peggiore è che a parte la possibilità di ricorre in tribunale e far giudicare l’opera a dei periti super partes non esistono modi per tutelarsi. Conosce Claudia Gian Ferrari, la gallerista e collezionista d’arte milanese scomparsa l’anno scorso? Bene. Aveva fondato un’associazione con il nipote del pittore De Pisis e, non si sa perché, bocciava tutti i De Pisis che uscivano dalla nostra Galleria. E sì che a mio nonno, a 17 anni, quando iniziò a lavorare nel mondo dell’arte, già passavano tra le mani quelle tele… era uno che sapeva riconoscere bene i falsi. Abbiamo dovuto ricorre al tribunale per tre volte. E abbiamo sempre vinto. Nell’ultimo caso, addirittura, quando abbiamo portato l’opera a una nota casa d’aste, entusiasta del quadro, appena ha saputo che eravamo stati in causa con la Gian Ferrari è sbiancato. E ci ha detto che non poteva prendere il De Pisis, neppure davanti a una sentenza di tribunale. Aveva paura di inimicarsela».
Senta, mettiamo il caso - ipotetico - di un quadro di un autore sconosciuto, del ’600, valutato diciamo 70mila euro, e che qualcuno attribuisce a Caravaggio, portando il valore ad alcune decine di milioni. Chi ci guadagna?
«Un sacco di gente. Prima di tutto il proprietario. Poi il critico. Che nella più onesta delle ipotesi ha un ritorno di visibilità e di autorevolezza, se le cose vanno bene, davvero notevole; e nella più disonesta una mazzetta, o una bella percentuale su una vendita successiva. Poi ci guadagnano gli intermediari della compravendita. Poi i musei che ospitano eventuali mostre, perché grazie alla pubblicità e al clamore dei media la gente corre a vedere l’“opera dell’anno”. Poi chi firma e vende il nuovo catalogo. Ma naturalmente sto facendo un discorso generale».
Me ne faccia uno particolare.
«Una nota famiglia milanese che aveva in caso un quadro di un pittore veneto poco famoso ma di valore: Luigi Nono. Lo vede un critico d’arte, serissimo, che in passato aveva curato il catalogo di riferimento di quell’artista, e lo giudica non autentico. I proprietari non si arrendono.
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