«Io, allievo ribelle vi racconto le sfide con Don Giussani»

A un anno dalla morte del fondatore di Cl il ricordo di Claudio Pavesi, il suo primo studente «contestatore»

Stefano Filippi

Un anno senza don Giussani. Oggi viene ricordato con la celebrazione di messe in 160 Paesi, da Monterrey (Messico) a Perth (Australia). «Anche se avvertiamo la sua mancanza, non ci siamo sentiti orfani», ha scritto ai ciellini il suo successore, don Julián Carrón, che dice: «Davanti a questa data è impossibile che non ci invada un'ondata di gratitudine e di commozione per la sua persona e la sua opera. Attraverso di lui, Cristo continua a essere all'opera tra di noi». Di gratitudine parla anche papa Benedetto XVI in una lettera autografa inviata a Carrón. Un anno fa, in un pomeriggio di pioggia e di lacrime silenziose, Joseph Ratzinger celebrò i funerali del fondatore di Comunione e liberazione. Disse che don Luigi Giussani «è divenuto realmente padre di molti avendo guidato le persone non a sé ma a Cristo» e per questo «ha guadagnato i cuori, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo». Nel messaggio di ieri, Benedetto XVI ricorda «con emozione» la cerimonia funebre del «caro don Giussani»: «Un sacerdote innamorato dell'uomo perché innamorato di Cristo. Di lui colpivano soprattutto la salda fedeltà a Cristo e lo sforzo incessante di comunicare le ricchezze del Vangelo a ogni categoria sociale».
«Ritratto perfetto. Era una persona piena di umanità da cui traboccava il desiderio di trasmettere ciò in cui credeva». Chi ricorda così il «Gius» è uno dei suoi studenti, Claudio Pavesi. Il primo che lo contestò a viso aperto appena il prete brianzolo - all'inizio dell'ottobre 1954 - mise piede nella quarta E del liceo classico Berchet di Milano. Oggi Pavesi ha 66 anni ed è appena andato in pensione dopo 40 anni passati a inventare nuovi profumi per una multinazionale di cosmetici.
Ha dimenticato quella prima ora di religione?
«Impossibile. Me lo ricordo entrare in aula con la tonaca svolazzante, non era neppure salito in cattedra che avevo già alzato la mano per criticarlo. Così, a priori. Gli dissi che la sua presenza a scuola era inutile perché fede e ragione erano inconciliabili. Giussani mi ascoltò e cominciammo a discutere. Nacque un rapporto molto franco, simpatico, cui parteciparono anche altri compagni di classe. Lui era coinvolgente, sicuro della sua fede e di quello che insegnava».
Riuscì a convincerla?
«Mi aprì delle domande. Miccinesi, il nostro professore di filosofia, ci aveva dato un'impostazione totalmente diversa. A me la filosofia piaceva e quei dialoghi mi appassionavano. Alle volte, di pomeriggio, con alcuni compagni prendevamo la bicicletta e andavamo a trovare Giussani a Desio, dove viveva con la mamma, per continuare la discussione. Era un bel viaggio, io abitavo in centro a Milano, in via Spiga».
E don Giussani apprezzava le critiche?
«Mai una volta che non abbia preso sul serio le mie questioni, mai una domanda che lo infastidisse. Io sono di famiglia cattolica ma andavo a informarmi da uno zio protestante, un uomo di cultura, per mettere Giussani in difficoltà. Ma non la spuntavo mai. Lui era semplice e affascinante, trasmetteva una passione travolgente, un entusiasmo contagioso. Ti rendeva partecipe di quello che diceva e ogni interrogativo era motivo per approfondire».
Lei entrò in Gioventù studentesca?
«No, sulle questioni religiose ero agnostico. Ma il rapporto con don Giussani rimase. A 23 anni, prima di sposarmi, andai a trovarlo. La mia fidanzata era cattolica praticante, ma io non volevo un matrimonio in chiesa soltanto per farle piacere. Non avevo nulla contro la religione, semplicemente non desideravo fare una cosa di cui non fossi convinto, per rispetto a lei e anche agli insegnamenti di don Giussani. Così decisi di parlare con lui».
Che cosa vi diceste?
«Lo trovai nella sede di Gs in via Statuto circondato dai ragazzi del “raggio”. Mi venne subito incontro: “Ah Pavesi, il contestatore!”, esclamò. Erano passati quattro anni, lui era già piuttosto conosciuto ma non mi aveva dimenticato. Gli spiegai il problema. Lo incontrai quattro o cinque volte nel suo studio ed ebbi la riprova della sua sensibilità e del suo affetto. Mi disse di non aver timore a sposarmi in chiesa: quello era un inizio, un modo “indiretto” di credere attraverso l'amore che volevo a mia moglie».
Restò in contatto con don Giussani?
«Sì, anche se le nostre strade si divisero. Lui a insegnare la fede, io a inventare profumi. Gli scrissi quando nacquero le mie figlie e lui mi rispose con bigliettini carichi di affetto. Ho sempre seguito la sua opera, ho letto i suoi libri. Sette o otto anni fa avremmo dovuto incontrarci. Don Giussani aveva telefonato a un nostro amico, voleva rivedere di nuovo quei tre o quattro allievi della quarta E di cui ricordava le discussioni appassionate. L'idea era di cenare assieme una sera. Poi lui si ammalò, l'appuntamento fu rinviato di mese in mese. Ma le sue condizioni si aggravarono e alla fine tutto saltò. Così, non l'ho più visto dall'ultimo colloquio prima del matrimonio».


Che cosa le resta di don Giussani?
«L'umanità, l'attenzione ai giovani, il desiderio di farli ragionare, la voglia di educare. La passione che ci metteva quando spiegava che fede e ragione vanno all'unisono. La disponibilità con tutti. L'entusiasmo di comunicare quello in cui credeva e che dava senso alla sua vita».

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