Fa un lavoro bastardo e sofisticato: un colpo solo in canna, un colpo all'anno, qualche volta due se capita l'Olimpiade. Capacità richiesta: l'alta precisione del cecchino. Non è ammessa rivincita. In caso di errore, il tormento dura mesi.
Che altro? Come no: per sovrapprezzo, negli ultimi tempi deve muoversi tra le macerie del doping, cercando fra i detriti qualche pezzo ancora buono per realizzare il suo progetto. Se li carica, se li studia, se li lavora. Un metodico, paziente, indefesso artigianato di misurazione, limatura, incastro: poi l'assemblaggio e la messa in strada. I risultati, da quel 2001 che lo vide giovanissimo raccogliere la sontuosa e schiacciante eredità del mitologico Alfredo Martini, è una statistica pazzesca. Ormai ha più medaglie di un gioielliere e di una madonna candelora. Difficile trovare nello sport italiano, ma anche in quello mondiale, e tutto sommato non solo nello sport, un tizio con così alta capacità realizzativa. Praticamente, non torna mai a mani vuote. Senza essere re Mida, tutto quello che tocca diventa metallo prezioso. I suoi prodigi sono ripetuti e certificati. Se fosse una faccenda di devozione popolare non ci sarebbero più esitazioni, le moltitudini già acclamerebbero: Ballerini santo subito.
«Non esageriamo - si schermisce il candidato santo -. Io a queste cose guardo poco. Non tengo il conto delle medaglie: ogni volta è la prima. Sono sempre a uno. La mia vera soddisfazione è vedere la squadra funzionare in un certo modo. Quella, la mia vittoria».
Una vita fa, quando usciva dal guscio di un valoroso gregariato per specializzarsi in Parigi-Roubaix, Ballerini aveva già una predisposizione azzurra. Quella maglia, la parola nazionale, l'inno di Mameli: li ha sempre sentiti suoi. Poi, come per predestinazione, pochi mesi dopo l'ultima Roubaix, la chiamata sull'ammiraglia dell'Italia. Un sogno. E' in quel preciso momento che nasce anche una storia dentro la storia: una volta insediato, Ballerini non fa il giovane che vuole liberarsi dell'ingombrante passato, ovviamente per liberarsi dai pesanti paragoni. Si affida proprio a Martini, il suo vecchio cittì. Martini il secondo padre. Con queste certezze alle spalle, Ballerini diventa il cittì gioielliere. Un cittì a vita? «E quando mai. Io vivo per la nazionale, ma basta perdere un paio di volte e si sale sulla griglia. Fa parte del lavoro
»".
Questo lavoro, un lavoro strano: «È il lavoro che amo. A me piace anche l'adrenalina del colpo secco, della gara unica. L'anno scorso, a Stoccarda, avevamo accumulato talmente tante difficoltà e tanti stress, che per una settimana non sono più riuscito a provare emozioni. Ero vuoto. Però proprio per tutte le difficoltà, per come abbiamo reagito, considero quella la vittoria più bella».
Agli altri cittì non invidia niente. «Forse, solo la possibilità di provare qualche giocatore nelle amichevoli. Io devo sempre andare sul virtuale, sull'immaginazione: sperando di prenderci».
Dicono che un bravo cittì debba essere motivatore, tattico, stratega, psicologo, mediatore: quanta roba tutta assieme. Dando per scontato l'intero armamentario, gli chiedo quale consideri la sua arma migliore. Sorride. «Guardandomi da fuori, direi che so ascoltare. Sì, con gli atleti è meglio ascoltare che imporre. Quando capisci cosa cercano, puoi far capire cosa cerchi tu. Se sono convinti, danno il 110 per cento».
Anche lui, da poche ore, è un orfano di Bettini. Del campione e del capitano di un'era. Sarà più dura? «Bettini mancherà a tutti. Gli stessi avversari ci vedranno in un altro modo. Ma io sono convinto che ormai la nazionale, anche grazie a Bettini, abbia creato un tale spirito, che sapremo colmare il vuoto. Troveremo anche il nuovo leader, ne sono certo».
Interviste, felicitazioni, telefonate fiume. Il dopo-Mondiale, quand'è vinto. Conosce bene il rituale, l'ha provato un po' di volte. Poi, si riaprirà la stagione dell'attesa. Sfumati feste e clamori, il cittì gioielliere si dedicherà un poco a se stesso. Alla moglie, ai due figli. Dovrà fare un po' di spola dalla Toscana al Nord.
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