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Io, capitolo di una storia misteriosa

Ecco la prefazione al libro «Inter, la grande storia nerazzurra dal 1908 a oggi» (Sep editrice) di Filippo Grassia e Giampiero Lotito, scritta da Giacinto Facchetti nello scorso aprile, quando purtroppo sapeva già di essere malato

L a storia non è di chi la scrive. La storia è di tutti: protagonisti e lettori, interpreti e spettatori, amici e avversari. La storia dell’Inter è la mia storia, ma è anche quella di mio padre, dei miei figli, sarà quella dei miei nipoti, ed è la stessa di tanta gente che non conosco e che incontro in giro per il mondo. Mi ferma e mi racconta la sua, la nostra storia nerazzurra.
Io, Giacinto Facchetti, sono un capitolo di questo libro oramai quasi centenario, di questa passione nata una sera del 1908 in un ristorante al centro di Milano: lì si ritrovano alcuni amici che abbandonano l’altra società della città e, come ci spiegherà anni dopo Peppino Prisco, sapranno dimostrare con i fatti, con la passione e con l’orgoglio, che «si può arrivare in alto anche partendo da umili origini».
Essere il protagonista di un capitolo della storia nerazzurra non mi ha mai tolto il piacere e la curiosità di leggere tutti gli altri, di appassionarmi per quell’alba lontana della squadra, per le fotografie della formazione del primo scudetto, per quei signori quasi in borghese che giocano e vincono su uno spazio trasformato in campo ai bordi della città. Amare l’Inter vuol dire conoscerne ogni particolare, saperne apprezzare le sfumature, perlustrare questo lungo bellissimo mistero. È come una donna incantata e affascinante: nasconde sempre qualcosa dietro il sorriso o la lacrima.
La storia non bussa, non si annuncia, non si presenta. Entra nelle vite e le segna, si materializza davanti agli occhi quando meno te lo aspetti. Ero un ragazzo di provincia quando, al centro di Rogoredo, ho incontrato per la prima volta Giuseppe Meazza. Io cercavo un futuro nell’Inter, lui indossava splendidamente la sua storia, leggenda e realtà, e osservava da bordo campo. Davanti agli spogliatoi era parcheggiata una sola autovettura, la sua: una millecento verde pisello. Di Meazza, noi ragazzi di allora, sapevamo tutto. Magari non lo avevamo visto giocare, però avevamo letto le cronache sportive, ci eravamo emozionati ai racconti tramandati dai padri e rimbalzati nei discorsi dei lunghi pomeriggi all’oratorio.
Oggi, forse come non mai, la storia è fondamentale ed è importante diffonderla, comunicarla, regalarla a chi ancora non la conosce. Di questo calcio moderno sappiamo e vediamo tutto, ogni giorno dell’anno possiamo rivedere da tutte le angolazioni un gol o un fuorigioco sbagliato. È un calcio che non ha più segreti, dicono. Non è vero, io non ci credo. L’Inter è madre di misteri e figlia di se stessa. Per capire meglio e apprezzare ancora di più quella che scende in campo negli anni 2000 bisogna saper riavvolgere il nastro, studiare i capitoli scritti dai protagonisti delle diverse epoche, immergersi in quella che - mi scusino gli eventuali tifosi lettori di altre squadre - è cultura. Non solo sportiva. Dentro l’Inter vivono e hanno vissuto Milano e le sue storiche contraddizioni, vittime e vittorie, campioni belli o dannati, manovali e talenti, anonimi e immensi, realtà agli antipodi unite attraverso i rimbalzi di un pallone uguale per tutti.


Con i colori del cielo e della notte, infinito amore, eterna squadra mia.

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