Io, figlia di una maniaca del bridge cresciuta fra «duplicati» e «barrage»

Sabrina Cottone

«La mia mamma è bella, la mia mamma è buona, la mia mamma pensa solo a giocare a carte». Pensierini di una bimba di sei anni che non potevano non preoccupare le Orsoline. La maniaca del tavolo da gioco fu convocata dalle suore e costretta a spiegare che sì, lei amava picche, cuori e senza (atout), ma no, non era una genitrice dissoluta. Più semplicemente era, è una bridgista. Ha partecipato ai mondiali di Verona 2006 e è solo l’ultima delle performance a cui ci ha abituati.
La mia mamma è un’atleta della mente dagli anni Sessanta, anche se per avere la certificazione che le ha cancellato i sensi di colpa ha dovuto aspettare il 1993, quando il bridge è stato dichiarato disciplina sportiva associata al Coni. «Ti dispiace se sono a Salsomaggiore per i campionati il giorno dei tuoi orali?» mi ha chiesto esitante nell’estate della maturità. «Ma figurati» ho risposto consapevole della posta in gioco. Lei era la mia campionessa, anche se i muscoli che più vedevo muoversi (oltre all’agitazione dei neuroni a caccia costante di sinapsi) restavano le corde vocali. Per licitare e per litigare, perché il bridge è disciplina che costringe a accapigliarsi su ogni carta scartata e presa perduta. Impari a attaccare e a difenderti.
C’è chi si forma su Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, la figlia di una bridgista conquista sulle regole del bridge le sue solide certezze. La prima: marito e moglie non devono cimentarsi in coppia, soprattutto se lui vuole riposarsi e lei allenarsi, se per lui è un gioco di società e per lei uno sport più atletico del calcio e intelligente degli scacchi. Non possono giocare insieme se non inseguono il divorzio né traumi alla prole. Ho passato una notte insonne a arrovellarmi su quanto fosse grave la discussione su quei sei fiori. «C’erano!». «No, non c’erano». «Allora è vero che non capisci niente».
Narra la leggenda che si tramanda di tavolo in tavolo, che dopo un errore (certamente) grave una signora abbia gelato il legittimo consorte: «Sei un vero cornuto e, se te lo dico io, puoi crederci». Per fortuna, i miei si sono fermati molto prima, hanno capito (quasi) subito che era meglio dividersi i ruoli per continuare a giocare insieme. Lei si è concentrata sul campo, lui sulla panchina e mio padre è diventato presidente del circolo del bridge. Qualsiasi cosa succeda, non siedono mai allo stesso tavolo.
I bridgisti sono una casta a sé. Si sentono eletti, fanno vacanze a tema, come quelle settimane nei villaggi Valtur che sono state un appuntamento fisso della mia giovane vita. Ero in un Valtur alla vigilia degli esami di terza media, e mentre la mamma e i suoi amici (avversari?) giocavano sotto il solleone, io mandavo a memoria «la nebbia agli irti colli piovigginando sale...» (Carducci, non Fiorello). Quelle vacanze sono state la tragedia più incompresa della mia adolescenza. «Mi portano via!» piangevo senza impietosire. I miei amici andavano in vespa al mare e si ritrovavano la sera a flirtare, io mi sentivo trascinata a forza lontana dall’amore di turno della vita. «Colpa del bridge» mi dicevo allora quando le cose andavano male. Con questa scusa ho superato brillantemente un certo numero di delusioni. «Merito del bridge» mi spiego adesso, ormai a corto di alibi mentali.
Esiste un Villaggio del Bridge, a picco sul mare della Calabria. Quando l’hanno costruito, ça va sans dire, mia mamma ha suggerito di comprare casa lì e pur di ritrovarsi con i compagni di manìa, da anni si sobbarca (e ci fa sobbarcare) centinaia di chilometri. Nella terra promessa con vista sulle acque può essere sicura di giocare ogni volta che gliene viene voglia. «Qui si sta al fresco, il panorama è magnifico e poi vedo tutti i miei amici» spiega candida mentre mette in valigia mazzi di carte e ponderosi volumi sul «naturale lungo-corto» e la «maxi super quinta», robe talmente complicate da doverle richiudere alla prima occhiata.
Stare in mezzo ai bridgisti e non entrare nella setta significa condannarsi a sentir parlare una lingua comprensibile più o meno come lo swahili. Si muovono in gruppo e si esprimono in un codice segreto e oscuro, fatto di secchi, pali nobili, barrage, Mitchell. A volte sembra di intuire, ma è un’illusione, perché se dicono contratto il notaio non c’entra, il cambio di colore non lo chiedono al parrucchiere, open non è l’abbonamento deluxe alla palestra. «Stasera c’è il duplicato» la frase buttata lì prima di uscire avvolta in una nuvola di mistero.
I bridgisti sono impietosi ai limiti della crudeltà, capaci di tagliar fuori il fratello perché «poverino, non ha alcun talento licitativo». In compenso venerano i migliori tra di loro come i comuni mortali Buffon dopo i rigori. «È Garozzo, o Bocchi, o Sementa» le ho sentito sussurrare mentre vedevo avvicinarsi questi sconosciuti illustri con cui lei sperava di discettare massimi sistemi.
Naturalmente, la mamma ha cercato di insegnare il bridge a me e a mia sorella e per fortuna (non credo per caso) non c’è mai riuscita. Così quando ci ritroviamo a casa si parla di politica, vestiti, libri, pettegolezzi, sentimenti, insomma dell’universo mondo oltre i confini del bridge. Quando ero in quinta ginnasio lei, furbissima, ha tentato il tutto per tutto e ha organizzato un corso per i miei compagni di classe.

Siamo andati tre o quattro volte, ascoltato professori che ci spiegavano il gioco citando Dostoevskij, raccolto dispense, guardato schemi astrusi. Poi abbiamo cominciato a marinare. Il greco era molto, molto più abbordabile.

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