(...) trascinano le loro vite. Lo sapevo anche prima che morisse mio figlio che il mondo è ingiusto, che non è un concorso a premi che regala ai più bravi, ai migliori, una lunga vita piena di soddisfazioni e di amore e punisce i cattivi riservando a loro le brutte cose della vita. Lo sapevo anche prima e ho cercato di insegnarlo ai miei figli, a Michele e a Guglielmo, cercando di prepararli ad affrontare i brutti scherzi del destino.
Lo sapevo anche prima, anche perché diversi miei cari amici sono passati attraverso queste tragedie prima di me ed io per l'affetto che a loro mi lega e per l'empatia di padre, ho assaggiato qualche sorso dell'amaro calice che era toccato a loro. Ovviamente, per mia fortuna e di coloro che stanno assaggiando il mio calice, l'empatia ha un limite e ti lascia a godere della tua vita, dei tuoi affetti e delle belle cose che la vita ti regala. Non so se per tutti è così, però a me queste esperienze qualcosa lasciavano: la paura. Ma non una paura paralizzante e costante, un paura «sana» che se è vero che alle volte mi coglieva all'improvviso, lasciandomi spesso piangente, in una sorta di acconto di «preview» di quanto sto soffrendo ora, è anche vero che mi ha spinto a vivere la mia vita, i miei figli, mia moglie, la famiglia, gli amici, tutti i miei affetti con un'intensità che normalmente il lavoro, le convenzioni, la pigrizia, un falso egoismo edonista (perchè il vero egoismo è il mio, che mi spinge a godere dei vari piaceri che consistono nel condividere soddisfazioni, dolori e delusioni con coloro che amiamo), con un'intensità, dicevo, che troppo spesso evitiamo.
Così ora posso dire che nei confronti di Michele, e potrei dire lo stesso per suo fratello Guglielmo, non ho rimpianti. Dolore, che scorre nelle vene mischiato al sangue, disperazione, che sgorga dagli occhi con le lacrime, scoramento, che mi lascia instupidito, come dopo un' incidente d'auto, ma non rimpianto. Non ho saltato un bacio, un abbraccio, uno schiaffo, una sgridata, una discussione, una risata, una presa in giro, un apprezzamento, un rimprovero, un premio. Gli ho cambiato i pannolini, gli ho dato il biberon, l'ho fatto addormentare sul mio petto, finché ho potuto, perlomeno, ho condiviso i film, la musica, lo sport, le passioni, gli ho curato il corpo e l'anima e ho promesso a lui di curare la mia. Ho vissuto con lui, e con suo fratello e sua madre, quindici meravigliosi anni.
Ora mi è stato tolto, o se n'è andato, per qualche ragione che non riesco a capire ma che spero qualcuno, o Qualcuno con la «Q» maiuscola, un giorno mi spiegherà. Ora tocca a me bere l'amaro calice senza fondo, sempre pieno. Però, però non sono solo. Ho Guglielmo, grande e grosso per tutti quanti, ma enorme nel mio cuore, diventato adulto troppo presto, al quale dare tutto il mio amore e quello di suo fratello, che adorava. Ho una moglie, che non amo di più per la semplice ragione che più di così non si può amare. Ho i miei genitori, i miei fratelli, suoceri, cognati e cognate, nipoti e i tanti amici miei. E ho gli amici di Michele, che ogni volta che incontro o mi regalano un sorriso, un abbraccio o un bacio, mi regalano un cucchiaino di zucchero per il mio calice. L'affetto che mi hanno regalato gli amici è stato un tale balsamo per le mie ferite che sentire che il papà di Filippo ne è privo mi fa star male. Lo so che molto spesso non si sa come fare, che si è assaliti non per indifferenza, ma per incapacità di affrontare l'abisso che si apre dietro gli occhi di un padre cui è morto il figlio, ma io chiedo a tutti gli amici di Filippo e dei suoi genitori di trovare il coraggio.
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