Cultura e Spettacoli

IRREQUIETEZZA Errare humanum est

Opere d’arte e testi letterari in mostra a Perugia per narrare l’eterno desiderio del viaggio e della ricerca dell’«altrove»

IRREQUIETEZZA Errare humanum est

nostro inviato a Perugia
Perché si fugge? E da cosa si fugge? Perché si torna? E a che cosa si torna? Ciò che si cerca vale ciò che si lascia? Ciò che si trova vale ciò che si trascura? E quando si viaggia, siamo proprio noi che viaggiamo, quelle stesse persone cioè fino al giorno prima sedentarie e circondate di piccoli agi, piccoli crucci, grandi agitazioni? Oppure è un altro «io» che prende il nostro posto, un’altra personalità del tutto differente dalla prima, un essere nuovo al mondo e per il mondo, un compagno di cui non sospettavamo l’esistenza, clandestino nel nostro corpo, stesso sangue e stessa carne, ma di diverso impasto?
Anatomia dell’irrequietezza, ansia di vagabondaggio... La mostra perugina di Palazzo Penna a cura di Luca Beatrice («Anatomia dell’irrequietezza», sino al 6 gennaio) inalbera proprio questo titolo chatwiniano, ma i saggi che accompagnano il catalogo risultano più omogenei, più ricchi, ma anche più «traditori» rispetto a ciò che l’esposizione allinea nelle varie sale. Alcuni paesaggi fra Sette e Ottocento, uno strepitoso Quadro egiziano di Mario Schifano del 1982, i bei dervisci danzanti, Whirling Green, di Aldo Mondino del 1991, la variopinta mappa di Alighiero Boetti datata 1972... E ancora: uno scatto di Gabriele Basilico, uno di Lou Reed, un altro di Wim Wenders, qualche installazione sparsa, la Land Art di Richard Long. Chi si aspettava il Grand Tour e/o l’Orientalismo rimane deluso, chi cercava il moderno viaggiare fra reportage, globalizzazione, ricerca di sé, rimane insoddisfatto.
Titolo chatwiniano, si diceva. Bruce Chatwin infatti su quell’anatomia dell’irrequietezza, su quell’ansia di vagabondaggio pensò di scriverci un libro, non sotto forma romanzata o di resoconto di fatti e luoghi visti, ma una sorta di breviario, di trattato etico e estetico, di «filosofia del movimento» quasi. Chi si sposta, chi è senza fissa dimora, ha meno pesi, è più libero, non ha ansie da successo, non insegue carriere: i grandi maestri dello spirito, da Buddha a San Francesco, hanno fatto del pellegrinaggio il centro della loro predicazione. E non è forse vero che l’alternativa nomade è più vicina all’alba e al cuore dell’umanità di quanto non lo sia quella stanziale, l’edificazione di mura e di strutture, il formarsi e il crescere di una società?
La tesi, per la verità, non è nuova e non priva di insidie. È nella Bibbia che la dicotomia fra lo stare e l’errare venne stabilita, facendo perno sul secondo corno della scelta. E infatti è l’assassino Caino il primo fondatore di città... Per Chatwin «nell’uomo è insita una pulsione, o istinto migratorio, inseparabile dal suo sistema nervoso, che quando è repressa a causa della sedentarietà trova delle scappatoie nella violenza, nella cupidigia, nella ricerca di status sociali o nella ossessione delle novità». Tesi affascinante quanto un po’ forzata: le società nomadi conoscono a loro volta violenza e sopraffazione, gerarchie e conflitti, ingiustizie. È più calzante, allora, la definizione spengleriana dell’uomo come «animale costruttore di città». Il controllo della natura, la presa di possesso del territorio, l’organizzazione comunitaria, la politica, lo Stato, in una parola, tutto ciò che fa una civiltà nasce dalla e con la città.
Paradossalmente, la scelta nomade non è di questo mondo, rimanda a una natura innaturale, a un Eden preistorico, è un’uscita dalla, non un ingresso nella storia. E infatti la «grande maladie, l’horreur du domicile», di cui parlerà Baudelaire, è proprio il tentativo di sfuggire allo stato civile che si è creato, è l’anarchico desiderio di evasione dalla prigione che si è costruita con le proprie mani credendo fosse una reggia, è l’insoddisfazione di chi non trova più accettabile l’equazione tot costi tot benefici, e vede salire i primi e diminuire i secondi. È la reazione individualistica quanto elitaria di chi non si riconosce più in un’organizzazione sociale che non controlla, da cui si sente soffocare, contro cui trova inutile lottare, perché la massa seleziona all’incontrario. È, infine, il sogno tipicamente umano di avere più d’una vita, più di un’occasione. È l’insoddisfazione come motore dell’azione, come esorcismo contro la propria finitudine.
È possibile che questo tipo di obiezioni siano salite alla mente di Chatwin, man mano che a quel libro lavorava. Così come, nel pensare a un altro soggetto in tema, «l’alternativa nomade», si trovò costretto ad ammettere che il vagabondare «poteva soddisfare parte delle sue curiosità naturali e del suo gusto per l’esplorazione», ma che egli si sentiva «strattonato dal desiderio di tornare». C’era insomma «una forza che lo spingeva a partire e un’altra che lo costringeva a rientrare». Cosa che con il nomadismo aveva poco a che vedere.
Sia come sia, né l’una né l’altra ipotesi di libro andò in porto, anche se le ragioni di fondo che l’avevano spinto in quella direzione sono alla base di tutta quanta la sua produzione letteraria. È giusto quindi che Anatomia dell’irrequietezza sia stato poi il titolo scelto da altri per una raccolta postuma dei suoi scritti in cui ci sono anche gli spunti e gli abbozzi sopra discussi: non siamo, bisogna dirlo con franchezza, di fronte a una raccolta esemplare, ma è anche vero che un Chatwin minore è sempre meglio di tanti «maggiori» in circolazione.
«Ogni viaggio dev’essere un pellegrinaggio» diceva Ernst Jünger. Se così non è rimangono «accumuli di immagini con i quali riempire il proprio foro interiore, come un album illustrato, dannoso perché l’io risulta disperso. Quei viaggiatori che da spettatori all’erta si trasformano in raccoglitori di istantanee e attraversano il mondo come ciechi, non ci danno l’evidenza di una mediocre caccia alle immagini?». Jünger ha ragione e però forse niente rende meglio l’idea di una predilezione che è anche un’ossessione del semplice «Io andrò là» che il piccolo Joseph Conrad si lascia scappare davanti ai suoi compagni di scuola e davanti a una carta geografica dell’Africa. È la stessa esclamazione che in Cuore di tenebra mette in bocca al suo alter ego Marlow, «Quando sarò grande andrò là», e che, l’anno prima di morire ritornerà in uno scritto, il suo ultimo scritto, che non a caso si intitola The Romance of Travels. Perché in inglese romance è una parola dalle molte facce, vuol dire avventura e forse chanson de geste, ha un senso romantico e insieme romanzesco, sa di immaginazione e di passione.
E ogni viaggio, allora, è anche, soprattutto, un romanzo e forse è per questo che continuiamo a dire di qualcuno la cui esistenza giudichiamo affascinante, che «la sua vita è un romanzo»... E non ci viene in mente che di brutti romanzi è piena la letteratura.
LA MOSTRA
«Anatomia dell’irrequietezza. Il mito del viaggio dal Grand Tour all’era virtuale». Perugia, Palazzo della Penna, via Podiani 11. Fino al 6 gennaio. Orari: 10-13; 15-19, chiuso il lunedì. Info: 075 5716233 (biglietteria) - 075 5772833; www.comune.perugia.it; info.cultura@comune.perugia.

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