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In Islanda un referendum per non pagare i debiti: "Tutta colpa dei banchieri"

Domani si vota per decidere se i soldi da rimborsare ai risparmiatori britannici e olandesi rovinati dal crac dell’Icesave devono arrivare dalle tasche dei contribuenti. Il 73% dice no: "Noi non c’entriamo niente"

In Islanda un referendum 
per non pagare i debiti: 
"Tutta colpa dei banchieri"

Reykjavik - Gli islandesi non vogliono pagare per gli errori dei loro banchieri. E domani lo faranno sapere votando in un referendum nazionale. L’esito rischia da una parte di aumentare i debiti dei cittadini, dall’altra d’impedire la ripresa economica, bloccare l’entrata di Reykjavik nell’Unione europea e causare instabilità politica.

Nel 2007, la remota isola dell’Atlantico del Nord era, secondo le Nazioni Unite, il luogo migliore dove vivere sul pianeta. Oggi, la parola che riassume le pene di 320mila discendenti dei vichinghi è «kreppa»: la crisi, la recessione, il baratro dove è finita la nazione dopo il crac del suo settore finanziario, vittima del credit crunch globale, nell’ottobre 2008. L’inflazione s’impenna; la corona ha perso la metà del suo valore; il 9% della popolazione attiva è disoccupata. E come se non bastasse, i contribuenti sono ora chiamati ad assumersi le responsabilità di sbagli commessi dagli istituti di credito. Due anni fa, il collasso di Icesave, banca online di Reykjavik, ha colpito 340mila risparmiatori nei Paesi Bassi e in Gran Bretagna. I governi inglese e olandese hanno ricompensato di tasca propria i correntisti ma ora vogliono che l’Islanda renda loro 3,9 miliardi di euro. Le tre nazioni si sono accordate a fine anno sui termini del rimborso, accettati dal Parlamento islandese. Ma il presidente Olafur Ragnar Grimsson, sotto pressione dell’opinione pubblica interna, non ha firmato la proposta. Così si è arrivati al referendum di sabato. Per settimane il governo del premier socialdemocratico, Johanna Sigurdardottir, eletto dopo la crisi politica innescata dal terremoto finanziario, ha negoziato con Londra e l’Aia per un nuovo accordo ma senza successo. Per il ministro delle Finanze dell’isola, Steingrimur Sigfusson, le divergenze restano «significative». L’accordo non piace agli islandesi per un motivo semplice: il debito da 3,9 miliardi di euro di Icesave - il 50% del pil islandese del 2009 - verrebbe a pesare sulle tasche dei contribuenti. Ogni abitante dovrebbe così sborsare negli anni 12mila euro.

Con questi numeri alla mano non è difficile credere ai risultati dei primi sondaggi: il 73% della popolazione voterà contro l’intesa con Gran Bretagna e Olanda (anche se non manca chi, nel mondo del business locale, ritiene un accordo necessario per accelerare la ripresa). «La responsabilità dell’accaduto deve essere divisa tra i tre Paesi», dice al Giornale Olafur Eliasson, fondatore di InDefence, associazione che dal 2008 fa pressione sul governo per non imporre altre pene alla già sfibrata popolazione. Eliasson, pianista diventato attivista con la crisi, spiega che se l’isola accettasse l’accordo, lui stesso dovrebbe rinunciare ogni mese a un quarto del suo stipendio di maestro di musica. La sua avventura è iniziata quando la Gran Bretagna ha utilizzato le leggi anti-terrorismo nazionali per congelare gli asset dei risparmiatori britannici nella banche islandesi. L’artista e i suoi amici lanciarono allora una campagna online, mettendo su internet migliaia di foto: giovani, vecchi e bambini, famiglie, studenti, lavoratori islandesi con un cartello in mano: «Non siamo terroristi». Poi, grazie a una petizione da 60mila firme, InDefence ha fatto pressioni sul presidente per non accettare l’accordo, aprendo così la via al referendum. «C’è un limite oltre il quale il pubblico non può andare, ma siamo contenti di trovare una soluzione alternativa», racconta oggi. Fonti del governo assicurano al Giornale: l’Islanda è impegnata a trovare una soluzione, in questione è il tipo di rimborso, non il rimborso in sé. «Il referendum è simbolico, dà voce alla popolazione frustrata - spiega al telefono dalla redazione del giornale economico Icelandic Financial News Bjorgvin Gudmundsson - il “no” non significa che l’Islanda non voglia pagare, ma che chiede un accordo giusto». I cittadini sono arrabbiati con i loro banchieri, spiega il giornalista, ma anche con il governo: «Pensano che non abbia fatto abbastanza».

Anche Bruxelles, che ha appena approvato l’avvio di negoziati per l’ingresso di Reykjavik nell’Unione, è visto come un attore troppo distante: «Ci aspettavamo più sostegno», dice Eliasson, secondo il quale ciò che accade oggi è la prova di come i grandi Paesi dell’Ue usino il proprio potere per fare pressione sui più piccoli. La chiama «guerra economica». Un recente sondaggio dà l’eurofilia in calo: il 56 % della popolazione è contraria all’Unione. E secondo molti analisti, un «no» sabato potrebbe compromettere le mire europee di Reykjavik ma non solo: senza un accordo si complicherebbero le relazioni internazionali dell’Islanda e la prospettiva di ricevere aiuti esteri, nonostante molta stampa economica mondiale, Financial Times in testa, abbia criticato il peso imposto ai contribuenti. Il Fondo monetario internazionale e i vicini scandinavi hanno pronto un pacchetto di 4,7 miliardi senza il quale l’isola non può pagare il programma di ripresa.

Ma il direttore della Banca centrale Arnor Sighvatsson rassicura: «Anche con un “no”, un accordo può arrivare».

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