ISPIRAZIONE A lui oggi si richiamano sia i repubblicani sia i democratici

Ronald Reagan è l'America. Volete un simbolo? Eccolo. Erede diretto di Washington, Jefferson e Lincoln. Uno per tutti. Uno di tutti. Ci sono pochi presidenti che hanno fatto la storia come lui. Resta un simbolo e oggi entra ed esce dalle pagine di attualità. Perché lui liberò il Paese dall'oppressione fiscale e adesso, nel pieno di una crisi enorme e duratura, sono in tanti a ricordarlo come possibile ispirazione per venirne fuori. Reagan è l'America per tutto. Per la biografia, per le idee, per lo spirito, per l'eredità che ha lasciato. Perché i suoi otto anni alla Casa Bianca sono pieni di cose che sono entrate nel Dna del Paese e senza le quali gli Stati Uniti non sarebbero ciò che sono.
Era un grande oratore, Reagan. Parlava, sorrideva, capiva. C'era una storiella che raccontava spesso: «Ci sono due bambini: uno ottimista e uno pessimista. Per modificare i loro caratteri esageratamente predisposti a questi atteggiamenti i genitori decidono di fare un esperimento. Il bambino pessimista viene messo in una stanza con tanti giochi a sua disposizione. Così da fargli vedere la dolcezza e le ricchezze che potrà ottenere. L'ottimista, al contrario, viene messo in una stanza con un cattivo odore, come di sterco di cavallo. Dopo qualche ora vengono riportati nella loro condizione normale. Il pessimista piangerà come un disperato e dirà alla madre di essere triste perché si è reso conto della bellezza della vita e delle comodità di cui potrebbe godere e di cui ha goduto per un periodo ma che ha perso per sempre. L'ottimista brillerà invece nel suo sorriso. Ai genitori confesserà la propria contentezza, sostenendo che nelle vicinanze del luogo in cui è stato recluso c'era un magnifico pony, perché lo aveva sentito dall'odore. E che presto, è sicuro, riuscirà a cavalcarlo». Ecco, quel bimbo sorridente era Reagan. E la sua politica economica (e poi anche il resto) fu proprio quella di un bimbo ottimista. Il suo nome resterà legato a una «rivoluzione» nel progetto e nel costume politico degli Stati Uniti, che è durata - e dura - molto più di quanto chiunque, tranne lui, si aspettasse. Pochi lo presero sul serio quando annunciò, nel 1966, la sua candidatura a governatore della California. Un suo ex produttore, memore dei ruoli che gli erano toccati nella sua carriera a Hollywood, decorosa ma non trionfale, rise: «No, non Reagan. Facciamo Herrol Flynn governatore e Ronald Reagan il suo migliore amico». Quando, trionfalmente eletto governatore, Reagan mise gli occhi sulla Casa Bianca ed espose i suoi programmi per il rilancio dell'economia, un suo rivale di partito, George Bush, li definì «esorcismi da woodoo». Quando, travolto Bush nelle «primarie», conquistò la candidatura repubblicana, il presidente democratico che egli sfidava, Jimmy Carter, lo ignorò a lungo. Una delle fortune di Reagan fu di essere costantemente sottovalutato. Continuò a esserlo anche dopo l'arrivo alla Casa Bianca, nel 1981. Si era portato un bagaglio leggero: non molti programmi, anzi, solamente due, ma davvero irrinunciabili. Su tutto il resto egli era disposto a compromessi. Il primo era il rilancio dell'economia americana mediante la «liberazione dell'iniziativa privata dalle sue catene» e la perseguì ostinatamente, fra lo scetticismo dei più e le previsioni apocalittiche di molti, attraversando anche due anni di recessione.
La base della rivoluzione era questa: «Lo Stato non è una soluzione: è il problema». Idee semplici sotto una convinzione ancora più semplice: Reagan era certo della bontà e della superiorità del sistema in cui viveva, cioè l'America e l'Occidente, la democrazia e il capitalismo. Come ha scritto Alberto Pasolini Zanelli «era pieno di visioni e di certezze, a cominciare da quella istintiva di vivere dalla parte del Bene, alla destra di Dio, in America». La sua risposta alle esigenze di crescita, gli economisti la chiamarono «teoria della supply side», l'«economia dell'offerta», stimolata in primo luogo dalla riduzione delle tasse. Il risultato fu un boom economico che, con poche oscillazioni, è durato due decenni, è stato imitato in molti Paesi del mondo e ha consolidato l'egemonia degli Stati Uniti sul pianeta.
Nella sua semplicità rivoluzionaria, Reagan aveva un'altra idea: mettere fine alla Guerra Fredda. La teorizzò nel 1981 e all'epoca sembrava un folle. Provate a immergervi in quell'era: a Mosca c'era Breznev, i russi stavano provando a prendersi l'Afghanistan, nei Paesi di Oltrecortina c'erano i missili puntati sull'Europa occidentale. Chi poteva pensare alla fine del comunismo? Reagan era convinto che, al di là dei muscoli mostrati, l'Urss aveva un punto debole: l'infelicità della sua gente. Lui sbatteva in faccia all'avversario i suoi successi e la felicità di una nuova era americana, quella degli anni Ottanta. Ottimista anche in questo, il presidente Ronnie era intimamente convinto che i sovietici erano battibili. Più gli intellettuali contestavano la sua teoria, più lui ci credeva. «Sa così poco - disse di Reagan uno dei suoi collaboratori, il consigliere per la Sicurezza nazionale Robert McFarlane - e riesce a fare tanto». Il merito era, anche in questo, delle sue «idee semplici»: bastava dare una spinta al momento giusto e la torre avrebbe vacillato e sarebbe caduta. Reagan fece cascare Mosca nel tranello dello «scudo spaziale». E di fatto vinse. Cominciarono le trattative tra lui e Gorbaciov e addio Guerra fredda.
Un nuotatore, ex bagnino, ex attore, uno disegnato spesso come un cowboy modificò per sempre la storia dell'umanità. Una volta disse: «Volevamo cambiare l'America e abbiamo cambiato il mondo». Fu la personificazione di un decennio, gli anni Ottanta, che dai suoi contemporanei venivano bistrattati, ma che successivamente sono stati incasellati tra i più felici della storia. Ma la sua forza è stata ed è quella di essere contemporaneo. Alla fine della sua avventura alla Casa Bianca si ritirò in California, in uno splendido ranch. Lui con la sua amatissima moglie e geniale first lady, Nancy. Sparì dalla scena pubblica, combattè contro il morbo di Alzheimer. L'America e il mondo hanno continuato a parlare di lui e della sua stagione. Ogni volta che si fa riferimento a una presidenza da imitare spunta quella di Ronnie.

I repubblicani lo tengono come punto di riferimento quando si perdono negli eccessi del conservatorismo, i democratici lo tirano fuori se gli serve per accreditarsi come americani veri: Reagan ha scavalcato la partigianeria e viene preso a esempio da tutti. Succede ai grandi, solo a loro.

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