da Milano
Finisce pari, ma nessuno se ne accorge. Emotivamente, è come se le squadre rientrassero in campo dopo un altro intervallo, per giocare il terzo tempo dell'infinita finale tedesca. Tra reducismo e amarcord, Italia-Francia è ancora la stessa cosa. A San Siro il sipario si rialza sulla memoria, ripresentando intatto l'armamentario nazional-patriottico di allora. C'è veramente tutto, neanche avessimo tenuto tutto in naftalina. Il coro col «po-popopo-popo-po», l'atletismo da mastrolindo di Cannavaro, le geniali pennellate di Pirlo, la terrificante capigliatura di Camoranesi.
Di quella magica sera, primo atto dell'interminabile sfida, mancano per la verità le star più attese. Materazzi è infortunato (simpatica coincidenza: proprio la Nazionale ha privato l'Inter del suo unico giocatore italiano, quasi volesse sottrarlo alla domenicale umiliazione d'essere straniero a casa sua). Pure Domenech, che a Berlino assisteva con sdegnata incredulità allo sgretolamento del suo tracotante teorema, è in tribuna per squalifica. Quanto a Zidane, inutile specificarlo, s'è ritirato da un po'. Eppure, astraendoci dai ristretti concetti di tempo e di spazio, è possibile dire che sia proprio lui il più presente di tutti. Lui e il parentado. I nostri tifosi lo evocano senza risparmio di energie e di striscioni, nonché di inequivocabili insinuazioni su madre e sorella. Il must, capace di creare un vero e proprio corteo pre-partita attorno a San Siro, resta lo Zidane gonfiabile con una baguette infilata proprio là, dove i nostri supporter ritengono di averla piazzata nella memorabile serata di Berlino.
Per quanto grassi e grevi siano gli estemporanei omaggi all'irripetibile finalissima, si resta comunque nel campo del folklore popolare. Un po' Alvari Vitali e un po' Vernacolieri, i tifosi italiani sembrano lontanissimi parenti, praticamente un'altra popolazione, rispetto ai tetri guerrafondai delle domeniche di campionato. Stavolta, nella contabilità del censurabile, ci sono soltanto i fischi assordanti che sommergono la Marsigliese. Certo, un'occasione persa. Si potrebbe uscirne da signori con un bell'applauso, mettendo una pietra sopra alle testate e ai veleni del 9 luglio 2006. Ma diciamoci la verità: chi l'ha detto che bisogna per forza fare la pace coi francesi. Dove sta scritto. La pace con i francesi, storicamente, è possibile solo a due condizioni tassative. La prima: che loro siano i migliori di tutti. La seconda: che gli altri riconoscano di essere pezzenti, e soprattutto pronti a riconoscere che i francesi sono i migliori di tutti.
Questa tradizione ha rotto. Dopo Berlino, almeno dopo Berlino, questo genere di pace non è più possibile. E tanto meno dovuta. La finale di Berlino, con le sue irripetibili combinazioni astrali, è riuscita a compiere il prodigio ritenuto impossibile: risvegliare in noi, pigri e letargici, una mezza forma di patriottismo. Basta zerbinaggi, basta provinciali complessi d'inferiorità. Forse, quanto prima, riusciremo anche a smetterla di considerare lo champagne una delizia divina e il Cartizze una bibita per beoni trevigiani, il Tour una leggenda romantica e il Giro una sagra della tinca, Aznavour uno chansonnier planetario e Lucio Battisti un poeta di borgata. Vai a sapere: magari riusciremo persino a convincerci che se loro hanno il profumo e noi il bidet, non è così certo che siano loro i più puliti. Col tempo, chissà.
Per il momento, i primi segnali arrivano dal calcio. Complimenti ai francesi: campioni del mondo d'orgoglio, con una testata di Zidane e due bischerate di Domenech sono riusciti a rianimare l'orgoglio nostro, anchilosato e rachitico. Eccolo qui, in prima serata tivù, l'incredibile capolavoro: gli ottantamila di San Siro - ovviamente meno i cinquemila dell'altra sponda - si sgolano commossi cantando «Vincerò» assieme al compianto Big Luciano, abilmente e doverosamente diffuso dagli altoparlanti nella serata più giusta. E poi, meglio ancora, l'inno di Mameli: urlato a squarciagola, quasi di rabbia, certo con esibito compiacimento di stampo tipicamente francese...
No, non sta scritto da nessuna parte che si debba per forza fare la pace. Tra i tanti difetti che abbiamo, ci manca il peggiore dei loro: l'ipocrisia. E allora viva l'odiato cittì Domenech: alle perfide carognate che ci ha rivolto, ha aggiunto una considerazione largamente condivisibile. «Vorrei che questa rivalità durasse per sempre: dà sapore allo sport».
Cristiano Gatti
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