Gli italiani stregati dal gelato

Paolo Marchi

In Italia hanno censito quasi seicento gusti diversi di gelato. Il loro elenco provoca un mix di curiosità, acquolina e perplessità. Del resto suona strano parlare di coni e di coppette al gusto di extravergine, pesto, ricotta, sedano, finocchio, grappa, rosmarino, alloro, rucola, salvia, fico d’india, fave, lenticchie, aceto balsamico (che, per inciso, gocciato sul fiordilatte lo trasforma in un capolavoro), carciofo, vincotto, barolo… in un viaggio che ha portato qualcuno a inventare il famigerato gusto puffo. Suonano singolari, anche se, come sempre, tutto, prima di essere giudicato, andrebbe assaggiato. In tal senso, è indelebile in me il ricordo di un sorbetto alle olive nere di Fulvio Pierangelini.
Va da sé che i più ricorrono a queste proposte per farsi notare visto che al momento di passare dall’idea all’ordinazione, i più restano fedeli al noto. Prima leoni e poi conigli. Tra creme e frutta, non c’è battaglia: il 73% degli italiani, rivela un sondaggio dell’Eurisko commissionato dall’Istituto del gelato italiano, www.istitutodelgelato.org, sceglie le creme. Il gusto che non passa mai di moda? Il cioccolato, amato dal 27%. Sul podio anche nocciola (20%), limone (13%) e appena sotto la fragola con un 12%. Manca la crema, probabilmente perché chi la gradisce si divide con la vaniglia. Il gelato piace in pratica a tutti, visto che il 5% che non lo consuma lo fa per intolleranze alimentari o problemi di salute.
Il gelato si sta destagionalizzando, brutta parola che sta per: non lo si mangia più solo quando fa caldo. E questo è bene perché può tranquillamente sostituire un panino o gli yogurt delle pause pranzo in ufficio. Ma c’è un male: manca una precisa regolamentazione sia in Italia sia nell’Unione europea, lacuna che permette a chiunque di improvvisarsi gelataio. A parte coloro che ricorrono direttamente al prodotto della grande industria, ad esempio l’Antica Gelateria del Corso della Nestlè non vende solo il confezionato, ma anche lo sfuso, chi si spaccia per artigiano nel 90% dei casi è un furbo che ciurla nel manico.
Bisogna intendersi sulla figura di artigiano. In assenza di norme chiare, per spacciarsi per artigiani basta avere imparato a usare le gelatiere, miscelando le basi dei vari gusti, i semilavorati e i coloranti, gli additivi e gli addensanti che non sono certo la farina di carrube, un addensante naturale, così come le uova non sono certo racchiuse nel loro guscio, ma quando va bene sono tuorli in cartoccio già separati dagli albumi. In pratica lo pseudo-artigiano è un commesso che accende una macchina, vi versa il contenuto di scatole e buste e fa partire il ciclo, finito il quale versa l’onda gelatosa nelle vaschette, creme dopate che, alte come sono, sfidano la legge di gravità proprio come le tette al silicone delle maggiorate.
I margini di guadagno sono enormi. Guido Martinetti, titolare con Federico Grom, delle gelaterie Grom, queste sì naturali, è stato chiarissimo nello spiegare perché ha lasciato la cantina di famiglia: «Se vuoi guadagnare devi aprire pizzerie o gelaterie. Io ho scelto la seconda opzione, di assoluta qualità però». Lui e il suo socio, sessant’anni in due, il laboratorio di base a Torino, sono un’eccezione di qualità come i quattro moschettieri che seguono le teorie di Angelo Corvitto, un siciliano trapiantato in Catalogna, in primis Giancarlo Timballo a Udine. In generale, accusa il Codacons, un cono piccolo, due gusti (ma il 54% degli italiani non ama mischiare i gusti) e un biscotto nell’estate 2001 costava 1.000 lire; lo stesso l’estate scorsa, ovvero tre anni dopo, un euro e mezzo con un aumento di circa il 300%. La coppetta più grande, da 3.500 lire è salita a tre euro, +70%. Ed è più salato anche il gelato confezionato: da 500/1.800 lire a 0,70/2,50 ovvero +169%. Timballo contesta queste cifre e invita le associazioni consumatori a rispolverare i listini del 2002 quando ci fu il cambio di moneta e a seguire gli aumenti delle materie prime, indispensabili per gli artigiani del cono. L’Italia ha prodotto l’anno scorso 249.300 tonnellate di gelato industriale pari a un valore di 1.875,4 milioni di euro. Allarme: si è registrato un calo del 10,3% a volume e dell’8,2 in valore. Ne abbiamo consumato per 215.844 tonnellate (3,7 chili pro-capite) e visto che ne abbiamo esportato per 61.237 tonnellate, ne abbiamo importato per il nostro consumo, probabilmente meno per il nostro piacere, 27.781 tonnellate, quasi una bestemmia vista la nostra tradizione.
Se la strada imboccata dai discepoli di Corvitto è lunga (in pratica ha rivoluzionato l’abc del gelato, distinguendo 15 famiglie dalla crema bianca alle creme e sorbetti ipocalorici, e non mancano due voci salate, la sua bibbia è Los secretos del helado per l’editore Vilbo), quella di Grom rappresenta un ritorno all’antico, quando gli ingredienti erano naturali. Non che non insorgessero problemi, l’uovo ad esempio è sempre stato a rischio, ma i gusti erano autentici e i colori pure. Grom aprì due anni fa a Torino e in queste settimane pure a Milano, Genova, Padova, Parma e Firenze. In pratica le miscele liquide sono prodotte in Piemonte, per essere poi mantecate nei vari punti vendita.

Il latte è piemontese, i pistacchi di Bronte, le uove di galline allevate a terra e con granaglie, l’acqua è minerale San Bernardo (perché sia uguale ovunque), le fragole di Ribera o Tortona, i pinoli di Pisa, le pesche di Pelizza o di Leonforte. Una curiosità: a Milano i prezzi sono superiori di un 20% perché città cara come il fuoco.

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