Italiano o terrone d’Europa: quando l'identità è la stessa

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Italiano o terrone d’Europa: 
quando l'identità è la stessa

L’identità è ordinariamente definita come coscienza di se stessi - anzitutto «sentita» e «vissuta», ma della quale va acquisita razionale consapevolezza -: cioè della propria specificità, di quel che distingue «noi» dagli «altri»; e della gradualità dell’essere «noi» rispetto agli «altri», che sono tali secondo criteri di maggiori o minori prossimità e/o affinità.

Quindi, l’identità è per sua natura dinamica, in quanto si modifica nella storia; ed è imperfetta, in quanto nessuna comunità e nessun individuo può vantarne una assoluta, metafisica e metastorica. Ciascuna identità deve misurarsi su concreti parametri storici, spaziali, linguistico-dialettali, religiosi, antropologici, che sono a loro volta matrici identitarie.

Le «identità» vanno pertanto pensate al plurale: ve ne sono di comunitarie e di individuali. La «nazionale», ad esempio, non può sacrificare la sua complessità a proposte riduttive e semplificatrici. L’idea di «nazione» si è sovrapposta difatti, magari con l'ambizione di sintetizzarle, a una serie d’«identità» precedenti non solo individuali, ma altresì familiari, cittadine, municipali, regionali: che corrispondono ad altrettanti modi di essere, di pensare, di sentire.

Bisogna inoltre tener presente che l’iter storico dell’Occidente moderno, dal Cinquecento e con maggior forza dal Settecento in poi, è stato caratterizzato da un progressivo iperatrofizzarsi dell'identità individuale, dell’ego: cui si sono andate sacrificando quelle comunitarie, considerate un ostacolo all’affermarsi sia dei poteri statali, sia della Libertà e della Volontà dell’individuo. Ancor adesso, il grande problema dell’Occidente è la difficoltà obiettiva di far convivere i princìpi dei Diritti Umani, considerati come assoluti e universali, con la Volontà di Potenza individualistica: che in determinati momenti storici si è proiettata in progetti collettivi di tipo nazionale o classistico, ma che comunque è di per sé insofferente di limiti.

Noi abbiamo difatti difficoltà a «pensare» sul serio un’identità che non sia anzitutto e soprattutto individuale. A livello comunitario, oggi molti parlano di «identità minacciata»: ma, se un’«identità» può venir senza dubbio combattuta o addirittura repressa dall’esterno, essa è tuttavia minacciata sul serio solo dal suo interno: cioè dalla carenza di autocoscienza, dall’oblìo delle tradizioni. Si autominaccia. Curando specie negli ultimi decenni la crescita della propria identità individuale, noi italiani abbiamo smarrito in gran parte la consapevolezza del nostro essere e del nostro vivere comunitario nella sua complessità. Salvo poi vederceli ricomparir davanti nelle forme del pregiudizio e della scarsa coscienza civica.

Perché siamo in effetti una nazione complessa. Siamo a dir poco «settentrionali», «centrali», «meridionali», «adriatico-ionici», «tirrenici», «isolani», ciascuno con proprie caratteristiche. La stessa lingua italiana è, in realtà, una costruzione ottocentesca. C’è poi il fatto religioso, complicato dalla crisi della religione prevalente - la cattolica -, in quanto la maggior parte dei cattolici sono soltanto sociologicamente tali; mentre bisogna tener d’altronde conto dei valori «laici» che hanno potentemente contribuito alla costruzione storica di una «nazione italiana» unitaria.

Ma il processo unitario nazionale si è realizzato da noi sulla base di scelte centralistiche di giacobina e bonapartistica memoria: coerente con la storia della Francia, da cui era nato, ma non con la nostra. Ch’è policentrica, regionale, municipale, comprensoriale, cittadina, familiare (anche le «mafie» ne fanno parte). Storia di varie «patrie», magari non granché compatibili fra loro ma profondamente e lungamente vissute, praticate, sentite, amate.

In tedesco, la patria si indica con due parole: Vaterland, la «terra degli antenati»; e Heimat, da una radice linguistica significante il segreto, l’intimo, il cuore delle cose.

La nazione italiana centralizzata si è imposta contro le tradizioni stratificate (da etruschi a greci, a celti, a longobardi, ad arabi), policentriche e regionalistiche delle genti italiche e la loro storia. Il secolo e mezzo di vita nazionale trascorso è per più versi stata una «falsa partenza» (pensiamo al tentativo di trasformarsi in grande potenza europea e al suo lungo contraccolpo, che ha diviso e ancora in parte divide le coscienze). Oggi la «seconda repubblica», se davvero è nata, ha scelto la forma federalistica: cioè ha in sostanza rifiutato un modello nel quale a lungo avevamo pur cercato e creduto d’identificarci. Va dunque costruita una nuova «identità italiana». Ciò non implica alcun rifiuto, alcun oblìo del passato: ma richiede un atteggiamento positivo ed energico di fronte alla realtà presente e alle potenzialità del futuro.

Nessuno può rinunziare alla sua Heimat profonda: la mia, per esempio, è toscana, anzi fiorentina, e cattolica. Ma la storia e la realtà attuale impongono anche quello che in tedesco si chiamerebbe il Grossvaterland, la «Grande Patria»: che per me è l’Europa, ma che io vivo da euromeridionale, da «euroterrone». Un europeo che si sente immerso nel Mediterraneo, prossimo al Vicino Oriente e all’Africa settentrionale. Tutto ciò esige sia il recupero di valori magari antichi, magari dimenticati, sia la scoperta di nuove affinità e di nuove frontiere.

Se riusciremo a vincere questa sfida, potremo parlare sul serio di una «identità italiana». A chi lo accusa di ateismo, uno dei protagonisti dei Demoni di Dostoevskji, Shatov, risponde: «Io crederò in Dio». Egli intende dire che accetterà la fede quando il popolo russo, nel suo insieme, saprà riscoprire le sue autentiche radici religiose.

Ebbene: nei confronti dell’Italia, mi sento un po’ come Shatov: io crederò nell’Italia se, al di là di nostalgie e di nuovi fanatismi, sapremo riscoprirci italiani recuperando le nostre tradizioni e al tempo stesso aprendoci - i tempi nuovi lo esigono - a chi ancora italiano non è ma in buona fede e buona volontà intende diventarlo; perché il ricambio è una forma di rinnovamento storicamente indispensabile (specie in tempi di decremento demografico dovuto, sul piano delle scelte morali, al benessere e al consumismo). Solo allora potrò dire anch’io, col poeta del Novecento che più amo, lo Ezra Pound dei Canti pisani: «Credo nell’Italia; e nella sua impossibile rinascita».

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