Perugia - «Non parlo italiano, ma se quei fottuti str... che hanno quelle fottute macchine fotografiche non le spengono, me ne vado. Io, Gary Peacock e Jack Dejohnette ci riserviamo il diritto di andarcene. Ogni persona che abbia accanto qualcuno con una macchina fotografica deve strappargliela di mano. Se non succede questo io lascerò questa maledetta città e voi avrete pagato il biglietto per niente. Il privilegio di essere qui è vostro, non mio».
Questo esempio di dolce stil novo, sebbene il lettore possa faticare a crederci, sono le parole che Keith Jarrett ha pronunciato entrando nel palcoscenico dell'Arena Santa Giuliana di Perugia, gremita da oltre quattromila persone già intirizzite da un vento gelido. Parole premeditate, perché il pianista superdivo aveva come collare un piccolo microfono, subito spento prima di attaccare il brano d'apertura, Green Dolphin Street. Parole offensive soprattutto verso la città che lo ha ospitato tante volte dal 1974 in poi (tre negli ultimi cinque anni), pagandogli quei cachet astronomici che oggi gli permettono la folle abitudine di approdare in Europa in un hotel di Nizza, di noleggiare un aerotaxi con contrabbassista, batterista e altre persone al seguito per raggiungere il luogo del concerto, e poi di ritornare a Nizza a concerto ultimato.
Dopo questo incipit travolgente, il trio più celebre del mondo, in attività da 24 anni, fa spazio alla musica con la consueta abitudine, poco frequente nel jazz, di osservare un intervallo di una ventina di minuti. Per fortuna non molti hanno capito il fervorino, ma si sono uditi fischi, buu e qualche improperio adeguato. La prima parte consta di sei brani abbastanza lunghi (oltre a quello citato, si riconoscono Last Night When We Were Young, Late Lament, One For Majid, I'm Gonna Laugh You e Right Out Of My Life) e il livello interpretativo-creativo è senz'altro elevato. Il più convincente e continuativo è Dejohnette, superbo per il drumming affascinante, quasi melodico oltre che ritmico, mentre gli altri due fanno routine, seppure di ottimo livello.
Il secondo tempo inizia con una pregevole versione di It's A Raggy Waltz di Dave Brubeck e tocca il vertice con il famoso Django di John Lewis, perfetto come in tempi migliori. Però dopo il terzo brano, Joy Spring, il trio accenna a sorpresa di voler terminare il concerto. Le rituali invocazioni di bis si sprecano ma, ahimè, lontano dal palcoscenico brilla un flash. «A questo punto il bis non ve lo do», ringhia Jarrett, e se ne va. Arriva invece un comunicato della Direzione artistica di Umbria Jazz, un tantino soft rispetto alla gravità dell'accaduto, ma termina con una frase secca: «Con Jarrett abbiamo chiuso». Si spera che l'esempio sia seguito da altre città, Milano compresa che prevede il trio al Teatro alla Scala il prossimo 14 ottobre.
Mentre scriviamo fervono dispute accanite. C'è chi tenta una difesa piuttosto strana di Jarrett, dicendo che «lui è sempre stato così», ma non è vero. Era un giovane timido e rispettoso, perlomeno fino a quando, nel 1972, cessò la sua collaborazione con Miles Davis e inizio la sua carriera autonoma. Proprio durante il suo tour italiano con Davis, a Torino, ci concesse un’intervista nella quale dichiarò testualmente: «Ho paura di quando sarò celebre, se mai lo diventerò, perché potrei perdere il senso delle proporzioni». Appunto.
Soltanto alcuni anni dopo, e un po' alla volta, cominciarono i capricci d'artista, i rimproveri rivolti al pubblico a scena aperta, le pretese cervellotiche inserite nei contratti. Ma le sue doti di musicista, comprese le discutibili interpretazioni classiche, erano molto amate dal pubblico, per cui troppo gli fu concesso e perdonato.
In fondo, la colpa è soprattutto di chi lo lasciò fare: basti pensare a tutti i suoi tour italiani, in trio o come solista, quando si cimentò con le maratone solitarie che per qualche tempo gli costarono la salute e il silenzio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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