Keith Richards contro Lady Gaga Sostanza rock e apparenza pop

La rockstar e la diva pop. Il pirata e l’eroina burlesque. Keith Richards e Lady Gaga sono in libreria con due biografie. Differenza abissale. Confronto improponibile. Un gigante e una bambina. Un ultrasessantenne che ha fatto un patto col diavolo. Una ventiquattrenne per la quale il diavolo non esiste. Quarant’anni e passa di tour. Un anno di Awards e discomusic. Il rock nato all’inizio dei Sessanta. Il pop del 2010. La Londra del beat e delle ragazzine in fregola da rivoluzione sessuale. La New York dei locali gay. Le minigonne di Mary Quant. L’opinabilità delle mutande. Maestri come Muddy Waters e Robert Johnson. Modelli come Grace Jones e Dale Bozzio dei Missing Persons. Si può andare avanti parecchio con differenze e contrapposizioni. Ed è ciò che serve per capire lo spirito del tempo. Di allora e di oggi. Di come siamo cambiati, com’è cambiata la scena giovanile, come sono cambiate le sponde dentro le quali si muovono i nostri ragazzi. Due icone che con un luogo comune si definirebbero trasgressive. Ma a ben guardare, di trasgressivo si trova davvero poco. Soprattutto perché nel caso del chitarrista dei Rolling Stones, un bianco con il blues dentro, l’idea di trasgredire qualcosa non era contemplata. Nel caso della popstar del momento, un dispenser di erotismo plastificato, al contrario si può parlare di prototipo della cultura in voga.
S’intitola Life il libro di Richards, scritto con James Fox, in cui il fondatore degli Stones parla in prima persona (Feltrinelli, pagg. 530, euro 24). Senza aggettivi, senza additivi: semplicemente vita. È una lunga scorribanda al di là del bene e del male, oltre il moralismo e la sociologia musicale in auge tra i guru delle case discografiche. Forse i fan degli Stones vi troveranno ciò che si aspettano: Richards autentico amante del rock, affezionato al pubblico, Mick Jagger egoista, incline alle canzoni pop e al jet set. Tutto vero e forse prevedibile. Ma Life ha l’ambizione di valicare i confini dei fan abituali. Classificandolo al primo posto delle pubblicazioni del 2010, Michiko Kakutani, temutissima critica letteraria del New York Times, oltre che di «eloquenza» e «humour», ha parlato di «candore». Perché nella folle cavalcata di Richards attraverso un quarantennio che racchiude l’epopea del rock, non c’è nulla di costruito, di artificiale. Sta qui il candore di Life. Tutto è nato dalla passione per la musica: volevamo essere una band che suonava il blues di Chicago. «Nell’arroganza della mia gioventù» racconta Richards, «l’idea di diventare una rockstar o una popstar occupava un gradino inferiore rispetto all’essere un bluesman e suonare nei club...». Invece, «tutt’a un tratto il mondo intero ci si spalancava davanti. Non è così facile essere famosi; è meglio non esserlo. Allo stesso tempo, se vuoi continuare a fare quello che fai sei costretto a esserlo». Le droghe pesanti e i litigi con Jagger, John Lennon che non regge l’eroina e i tour estenuanti, la morte di Brian Jones e l’amore per Anita Pallenberg, le big mama che ti portano la colazione a letto anche se loro figlia è sotto le tue lenzuola, Exile on Main street e la Costa Azzurra dopo la fuga dall’Inghilterra per ragioni fiscali, il periodo giamaicano e la chitarra a cinque corde, gli arresti e la moglie del premier canadese Trudeau che s’infilava in camera. Anni vissuti «in bilico», ripete Richards. Nel 1973 la rivista New Musical Express lo colloca al primo posto della lista delle star più prossime alla morte. Ci rimase dieci anni in testa a quella classifica. Salvato dalla fortuna, da un potente produttore di ananas delle Hawaii, dalla clemenza della corte, dagli stupefacenti di prima qualità mai tagliati, dalla scelta di smettere. Una volta, tornando dal villaggio di Knebworth dopo un concerto i poliziotti inglesi trovano dell’acido. Arresto inevitabile. Alla corte «tenni un discorso della serie: questa è la mia vita, noi viviamo così e le cazzate succedono. Non si vive come me. Io faccio quello che devo fare. Se faccio una cazzata, mi dispiace molto. Sto semplicemente vivendo una vita pacifica. Lasciatemi arrivare al prossimo concerto. In altre parole, ehi, è solo rock’n’roll». Fu rilasciato con una multa. È Life.
Nessun candore e molto artificio nel fenomeno Lady Gaga (Mondadori, pagg. 244, euro 19) raccontato da Maureen Callahan che la descrive come «la prima popstar ad aver veramente capito le potenzialità del web e dei social media», riuscendo a creare una vera «intimità di massa». Mentre per gli Stones il successo arriva sovvertendo le regole della comunicazione («una guerra lampo, un vero e proprio assalto all’intero sistema delle pubbliche relazioni»), l’exploit dell’italoamericana Stefani Joanne Angelina Germanotta, è frutto del mix internet più marketing. Strumenti che padroneggia con sofisticata astuzia. Innovazione musicale pochina, vince il look. Sintetizza la Callahan: da Nina Hagen e Dale Bozzio ha preso l’aggressiva sessualità. Da Peter Gabriel e Boy Gorge il trucco da teatro kabuki. Da Björk l’estetica futuristica. Da Marilyn Manson e Alice Cooper l’ambiguità sessuale. Da Gwen Stefani il sound. Da Madonna quasi tutto. Il caravanserraglio di stilisti e costumisti, designer e discografici è frullato da una determinatissima ambizione: «Diventare la più grande popstar del mondo». Al fidanzato barman col quale sta per rompere annuncia: «Un giorno, quando non saremo più insieme, non riuscirai a ordinare un caffè al bar senza vedermi o sentirmi da qualche radio o tv». Ci è quasi riuscita.

Ma qualche mese fa i suoi fan in attesa al concerto di Manchester ci pensavano su: «Diventerei matto se scoprissi che è solo immagine»; «La mia percezione è che si sia fatta da sé. Ma se mi sbaglio, me l’ha venduta proprio bene».

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