Kentucky, il mito del bourbon

nostro inviato a Louisville
Pace e bourbon fra le colline del Kentucky. In questo angolo d’America un po’ fuorirotta, patria del presidente Abramo Lincoln e del pugile Cassius Clay, bottiglie pregiate e cavalli di razza accendono la gente. Storia e coloni, distillerie e business; a tavola c’è il rispetto delle tradizioni. Dopocena sigari facoltativi, ma un buon bicchiere non si rifiuta mai.
«Wellcome, benvenuti alla Maker’s Mark, dai fondatori 250 anni di vita, patrimonio del Paese da quasi 30 anni». Valery Penny, capelli color grano e occhi blu stoviglia, fa gli onori di casa nelle distese di Loretto, oltre un’ora di auto dalla capitale Louisville (ci si arriva meglio con voli da Washington e Atlanta; da Malpensa - agenzia KuoniGastaldi). Nella contea Marion c’è la distilleria della stirpe Samuelson, risposta al whisky d’oltremanica (ha un museo ed è visitata da migliaia di turisti). Ora i vertici della griffe, il cui presidente è Bill Samuels junior, hanno in mente un’idea. Espandersi sull’italico mercato e andare oltre le mille casse all’anno, raddoppiare, in barba ai «cugini» di Edimburgo. «Quali le differenze tra noi e loro?». Prima del tour, gli esperti ci tengono a marcare le differenze: «Lo scotch viene prodotto con orzo essiccato col fumo di torba, il nostro è essiccato all’aria calda in modo da non alterare l’aroma e il sapore naturale del malto». In Scozia la bevanda viene fatta invecchiare in botti già usate e in un clima più freddo rispetto al Kentucky. «Grazie a questi due fattori - proseguono -, il processo è più lungo in confronto a quello del bourbon, per il quale usiamo botti nuove e dove la temperatura è più alta». Per una bottiglia dodici mesi nelle terre di Louisville equivalgono a 3/4 anni in Scozia. Segreti da bere, ma non basta.
«Come here, venite a guardare come si fa». Kevin Smith, 41 anni, vicedirettore della produzione, ha iniziato nell’89, in un periodo di crisi («c’era spazio e la possibilità di imparare dagli anziani», confida). Un giorno con lui nello stabilimento è un master. La distillazione? «La prima in un alambicco a colonna di rame, la seconda in un altro chiamato “pot still”. Produzione più limitata, in cui le caratteristiche del mais, dell’orzo maltato e del frumento restano intatte; il bourbon dai 60/65 gradi viene portato fino a 45». Le botti? «Sono fatte asciugare all’aria per almeno nove mesi. Vengono carbonizzate all’interno per aggiungere gusto caramellato e colore ambrato al prodotto finale». La maturazione? Si ottiene nei magazzini spostandole su diversi piani, per sfruttare le variazioni di temperatura. Per la preparazione ci vogliono fino a cinque anni; e il prodotto risulta con un gusto dalla forte identità: dolce, morbido e delicato. Le bottiglie vengono sigillate in maniera nobile, con la cera rossa. «A trovare la denominazione fu la moglie di Bill Samuels, lui discendente del fondatore Robert (1734). Decise di imprimere una svolta al bourbon di famiglia e agli affari, nei primi anni Cinquanta». In una cerimonia diede fuoco alla ricetta per creare Maker’s Mark, letteralmente il marchio del produttore.
Dal tempo dei pionieri dopo la guerra d’Indipendenza, quando i coloni portavano la bevanda sui mercati navigando sul fiume (a destinazione vendevano anche il battello per incassare di più e compravano cavalli), anche oggi la saga viene tramandata con orgoglio a quanti passano di lì. Ci si può avventurare nell’azienda; in ufficio ci sono foto di famiglia, bandiere, cimeli. Un giro nei reparti della produzione, dalle bottiglie alle etichette, aggiunge un altro pezzo al puzzle. Accanto ai «c’era una volta...», si scopre l’organizzazione del lavoro: tutto gira come un orologio e i numeri completano il quadro di questi produttori, aspiranti secondi nel loro mondo: «Esportiamo negli States, in Europa, in Giappone e Australia». Di cifre si discute al Churcill Down, uno dei templi dell’ippica d’America (per dare il benvenuto al Kentucky derby di maggio sul fiume Ohio sono stati sparate 50 tonnellate di fuochi in mezz’ora). Nell’esclusivo club si scommette tutto il giorno.

Davanti a un piatto di carne e cocktail Mint Julep (vedi box) conduce il gioco lo stratega del marketing, il generoso e fiero Barry Younkie. «Il mercato del bourbon in Italia è in espansione - l’analisi dei produttori -. Nei prossimi anni le vendite saliranno». Come un inno: Fratelli d’Italia, my old Kentucky home.

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