Klammer: «Solo Stenmark rimane lassù, imbattibile»

Intervista al grande austriaco: «L’oro olimpico è il trionfo più grande. Per la libera di Torino vedo Strobl, Miller e Aamodt»

Andrea Fanì

La prima volta che Franz Klammer ha messo piede a Roma «fu per il viaggio di nozze». La seconda è per portare la fiaccola olimpica di Torino 2006. Non male, davvero, persino per lui, il Kaiser, il più grande discesista di ogni tempo, oro olimpico a Innsbruck '76, cinque coppe del mondo di specialità (l'ultima nel 1983), 25 vittorie in carriera. C'è la figlia Sophie, c’è l'amico Tomba («Alberto ha portato il sorriso nel mondo dello sci, la sera prima corteggiava le ragazze e il giorno dopo vinceva gli slalom»): poi c'è lui. Che parte dall'ultima passione.
Dal bianco della neve al verde del campo da golf.
«Lo adoro. Appena arrivato in città ho pensato: clima splendido per il golf. Ma poi non ho giocato».
Se fosse nel programma olimpico ci farebbe un pensiero?
«Ho una grande passione, ma non sono competitivo. E nel golf il coraggio non basta, quando mi lanciavo a cento all'ora giù per le discese, paradossalmente, sapevo ciò che facevo».
Ci spiega il sapore dell'Olimpiade?
«Semplice: puoi vincere tante gare di coppa, ce n'è una a settimana. Invece l'Olimpiade c'è ogni quattro anni. Ora è sempre più un business, ma lo spirito che si respira nel villaggio è unico, sembra un sogno. Quando l'ho vinta, sapevo quanto era importante, ma non avrei mai immaginato che mi avrebbe radicalmente cambiato la vita».
Un giudizio sulla Kandahar, pista olimpica di Sestriere.
«L'ho vista una sola volta, anni fa. È un tracciato molto tecnico. Vincerà chi riuscirà a trovare la giusta confidenza con la pista: il più continuo finora è Fritz Strobl, ma vedo bene anche Miller e Aamodt. Occhio al norvegese».
Nessuna chance per Ghedina?
«Il suo problema è che a una certa età, hai bisogno, per vincere, che tutto sia perfetto: gli sci, il clima, la luce, la neve. Invece un atleta più giovane si adatta a ogni condizione».
Lei aveva solo 23 anni quando vinse l'oro a Innsbruck.
«Sì, e rischiai tanto. Ma sapevo di doverlo fare, se non avessi osato non ce l'avrei fatta. Era la mia forza: osare per vincere».
All'epoca era il favorito. Pressioni forti?
«Ma io avevo bisogno della pressione per dare il meglio! Per questo vinsi. A Sarajevo, nell'84, non avevo più alcuno stimolo, non sentivo di "dover" vincere. E andò male».
Lei detiene molti record in discesa libera: ci sarà mai un altro Klammer?
«I record sono fatti per essere battuti. L'unica eccezione sono le vittorie di Stenmark (86, ndr). Lui resterà imbattuto».
È più facile vincere o aiutare gli atleti con la sua Fondazione?
«Con la mia Fondazione voglio restituire al mondo dello sci parte di quello che ho ricevuto. Io ho avuto gloria e vittorie, e mi sono chiesto se fosse giusto che un altro uomo, che fa i miei stessi sacrifici, venisse bloccato dagli infortuni. Così cerco di restituire loro il coraggio e la voglia di ripartire. Verso la vittoria».
L'epoca dei personaggi, come lei, pare finita. Ora sembrano esserci solo «super atleti».
«In effetti oggi ci sono preparatori, tecnici, psicologi, medici: tutti intorno a un solo atleta. Ai miei tempi spesso si era soli contro la pista, gli avversari e se stessi. Forse era meglio».
Miller ha detto «legalizziamo il doping, ci aiuta contro gli infortuni».
«Sono totalmente contrario, Bode non mi è proprio piaciuto. Preferisco prendermi una botta piuttosto che farmi fare un'iniezione di non so cosa. Io la penso così: se sto bene gareggio, se sto male non gareggio. Punto.

Un aiuto agli atleti potrebbe venire non dal doping, ma dalla riduzione delle sciancrature degli sci, dalla riduzione delle velocità di conduzione. Allora sì che gli atleti non dovrebbero preoccuparsi degli infortuni». Parola di Kaiser.

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