Klobas, un nonno matto e altre gustose allegorie

Tra i non classificabili delle patrie lettere, Lucio Klobas occupa da sempre un posto di spicco. Critico letterario, romanziere, narratore di racconti, persin poeta, chi è questo istriano-bergamasco poco più che sessantenne? Domanda impervia. Di certo, Klobas ha intuito con qualche anticipo (un po’ troppo) che fra le cosiddette chiavi d’accesso alla modernità c’è il grottesco. Non soltanto il comico, di cui hanno scritto molti suoi eccellenti lettori: proprio l’iperbolico, il paradossale, con cui questo straniero in patria, quest’uomo antifrastico per natura ha da sempre commercio.
Simile peculiarità non era sfuggita a Giorgio Manganelli che, all’uscita dell’ormai introvabile Silenzi collettivi (Theoria, 1988) ne scrisse come di una «guitteria di gran classe, una fanfaluca rigorosa, la cantafavola di un finto ubriaco». Nel turbine di ossimori, Manganelli aveva visto bene e userebbe forse oggi parole non dissimili per raccontare questi Antichi mestieri, appena éditi da Flaccovio. Dopo la poderosa, complessa Monotrilogia (Greco&Greco, 2004), Klobas persiste nella sua felice, ateissima coincidentia oppositorum e se ne esce con una pazzesca allegoria storica in 5 capitoli e 96 paginette che comincia così: «Mio nonno faceva il contadino». Vien già da ridere, ma bastano le 15 parentesi della prima pagina a far capire che questo è non solo un libro da ridere, ma dispone anche di una struttura bene articolata. La voce narrante, il nipote Klobas, ha come contrappunto la parentesi, sua sorella e nemica, che alza e abbassa il registro stilistico quel tanto che basta a creare un contrappunto in stile gran varietà, affatto inusuale nella letteratura italiana. E la storia, poi, è delle più bislacche.
Un giorno, suona alla porta di casa il postino. Reca un plico elegantissimo, per informare il nonno, che si chiama Joseph, della sua nomina a Re di tutte le France, con il nome di Joseph III e gli appellativi di Re della Primavera, duca delle rose e dei ciclamini. Da lì in avanti, è una sarabanda di titoli nobiliari assurdi, che discendono da Swift e da Dickens, ma hanno il tratto comune di una memoria mitteleuropea; e di una tirannia del tutto priva di senso. Perché in questo gioco, come in ogni gioco, si gioca seriamente; e il nonno Joseph è in realtà Klobas stesso, mémore di un’Europa grande e cosciente di sé, che oggi non esiste se non come espressione geografica. Di questa consapevolezza a un tempo dolorosa e buffa è espressione anche il fitto coro dei personaggi di contorno, fra i quali spicca la nonna, cui tocca il ruolo di primattrice in clausola di racconto: non proprio un coup de théâtre, ma l’idea clownesca che può averne l’autore.
Senza troppo darlo a vedere, infatti, perché è uomo di mondo e di lunga navigazione nel mondo delle lettere, Klobas ritrae se stesso en saltimbanque, come ha insegnato Jean Starobinski.

Il nonno matto di questi Antichi mestieri è, alla fine dei conti, un Lucio Klobas dipinto, per esempio, da Karel Appel o, più modestamente, da un Lucien Freud. Un pezzo piuttosto unico nel panorama letterario italiano, un libretto da leggere e un autore da conoscere, non solo in virtù della sua lunghissima e fedele amicizia con Giuseppe Pontiggia.

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