Cultura e Spettacoli

L’algida Elisabetta sovrasta l’effimera icona di Lady D

Grande interpretazione di Helen Mirren in «The Queen» di Stephen Frears. L’autore nega che l’opera dia un altro colpo alla monarchia

da Venezia

Inadeguata come moglie dell’erede al trono d’Inghilterra, adeguata come icona dello star system, Lady Diana è morta il 30 agosto 1997. Era appena cominciata la Mostra di Venezia di allora e lei - giovane e bella - venne laicamente santificata da tv e stampa popolare, ai quali negli anni precedenti aveva dato tante occasioni di prosperare. Più lei dava loro in pasto la sua vita intima, ripicche verso la famiglia reale, più commesse e shampiste con lei s’identificavano. Diana - si dice - aveva di che vendicarsi: ma a più di vent’anni credeva davvero che si salisse al trono gratis? E comunque quel che è sconveniente per un’alta borghese, è pericoloso per un’altezza reale, perché compromette la dinastia e il paese.
Si sa com’è finita: sotto un ponte una notte a Parigi. Anche se quello fosse stato veramente un incidente stradale, come mi dice di credere Frears, con le sue leggerezze Lady Diana tanto aveva da far parere verosimile un’esecuzione dei servizi segreti inglesi. Così, alla Mostra di nove anni dopo che coincise con quella morte oscura (vinse Kitano con Hana-bi), il film di Stephen Frears The Queen - La regina propone Elisabetta II (Helen Mirren) non per quasi sessant’anni di regno e undici primi ministri - da Churchill a Blair - che le hanno giurato fedeltà, ma solo per la breve, triste unione del figlio Carlo e per l’ancor più triste fine di Diana, dalla quale lui aveva divorziato fra infiniti pettegolezzi, non ancora spenti. In fondo anche Frears non trova con me altro merito per lei che essere riuscito a far parlare ampiamente di adulterio alla tv inglese...
Eppure l’imitazione della Mirren - che nel doppiaggio italiano andrà perduta nelle sue intonazioni di una bella lingua inglese, così alta rispetto a quella di Blair (Michael Sheen) - è così riuscita che la sua finta, algida Elisabetta II strappi la vedette alla vera, pruriginosa Diana, mostrata continuamente in immagini tv, impietose nel rivelarne ormai l’effimera consistenza di icona - se non di nani e ballerine - di un sistema mediatico che vibra meno per God Save the Queen o per Rule Britannia che per le canzoni di Elton John e i gorgheggi di Pavarotti, che cantò al suo funerale.
Ma il film non è solo ricostruzione accurata degli eventi di una settimana terribile per i reali d’Inghilterra. È anche una sintesi di uno scontro più vasto, fra i pochi degni (a cominciare da Elisabetta e dal principe Filippo (James Cromwell) e molti indegni, a cominciare da Blair e dai suoi tirapiedi, che incitarono la plebe mediatica, inglese e mondiale, a un culto smodato per la «principessa del popolo», come s’ingegnarono di chiamarla, dopo averla più stringatamente definita quand’era viva e vispa con Dodi al Fayed e innumerevoli altri. Ed è questo il lato più interessante di The Queen, che Frears e il suo sceneggiatore, Peter Morgan, tengono brillantemente in equilibrio accontentando tutti: i tenaci devoti di Diana (è facile, sono di bocca buona), i residui votanti di Blair (pazienza, sono pochi ormai), ma anche i non molti seguaci di Carlo (Alex Jennings) e il plebiscitario seguito di Elisabetta II, presa in giro con bonarietà e comunque di una spanna al di sopra del resto della mischia.
Nel suo fac-simile della regina Elisabetta, Helen Mirren - lungamente applaudita ieri dalla stampa - potrebbe dunque avere la coppa Volpi, se la sua coetanea Catherine Deneuve - presidente della giuria - si facesse convincere che, con lei, premierebbe più Lady Diana che Elisabetta. Quel che potrebbe esser più difficile è convincere la Deneuve e gli altri giurati che interpretare bene significhi imitare bene.
Si è scritto che il film di Frears dia un altro colpo alla monarchia ed esalti Blair. Con me il regista lo nega e si direbbe che abbia ragione. Se ci sono due figure grottesche nel suo film, sono appunto Blair e la moglie (Helen McCrory). Eppure è lo stesso Frears a definire «astuto e arguto» Blair per come s’è comportato per portare le future Olimpiadi a Londra. Ma questa abilità di mercante (si ricordino le accuse francesi di aver comprato la scelta del comitato olimpico) è anche il suo limite. E non lo salva la sparata fine che lo sceneggiatore Peter Morgan gli attribuisce in difesa della regina per assurgere in extremis da fortunato politicante a indomito statista. Chi compra - si sa - vende anche, inclusi gli interessi del proprio paese. E dal film di Frears traspare lo scherno che questo regista - abile nel sentire l’aria che tira, fingendo d’essere controcorrente - schizza su di lui, come vetriolo.

Anche da questo si vede che l’era Blair è finita, lasciando perfino meno rimpianti di quelli lasciati da una ragazza disillusa.

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