L’ambiguo generale che aveva promesso a Bush la testa di Bin Laden

Cattolico e militare, mai gentiluomo: questa è stata la formazione del, da ieri, ex presidente del Pakistan, perché è in una scuola cattolica che si è formato, è la divisa che ha vestito dai ventuno anni, quando entrò all'Accademia militare, a oggi. Pervez Musharraf, furbo e mediocre, 65 anni e molti peccati sulla coscienza, forse anche l'assassinio dell'eroina nazionale Benazir Bhutto, si è deciso ad andarsene solo alla vigilia di una procedura di impeachment, e solo dopo una pesante sconfitta elettorale e un altrettanto pesante abbandono degli alleati americani e inglesi. Era salito al potere con un colpo di Stato nel 1999, facendo fuori il primo ministro Nawaz Sharif, si era fatto convalidare il golpe da una Corte Suprema addomesticata a dovere, poi si era proclamato presidente. È stato poi eletto per un secondo mandato l'anno scorso dopo aver rinunciato, ma solo formalmente, a indossare l'amata divisa. Ma è in mezzo a queste due date che era scattata la sua fortuna, ovvero subito dopo l'11 Settembre del 2001, dopo la strage delle Torri gemelle. George Bush aveva bisogno di qualche alleato nella guerra al terrorismo sul territorio che lo produce, e Musharraf sembrò l'uomo giusto. Per fargli tirare fuori un po' di coraggio gli Stati Uniti concessero al Pakistan un prestito, ma si potrebbe definire un regalo, di 12 miliardi di dollari. Lui, il presidente militare, incassò, si salvo dalla crisi economica e dalla disgrazia politica, ma poi fece ben poco per accontentare i generosi alleati. Certo, in un Paese nuovo, è nato nel 1947, e profondamente islamico come il Pakistan, le accuse di essere un servo degli americani pesano; certo, Musharraf è sfuggito ad almeno due attentati seri. Ma in realtà non ha mai fatto niente di concreto, di coraggioso, per combattere i talebani pachistani, e le basi di quelli afgani tranquillamente piazzate nel Paese; non ha mai mosso un dito contro le postazioni dei terroristi di Al Qaida, pure tranquillamente alloggiati in territorio pachistano.
Non basta, all'opposizione il presidente risponde con i metodi del dittatore che è, e a marzo 2007 rimuove il popolare presidente della Corte suprema, il giudice Iftikhar Chaudhry, ritenuto un grande difensore dei diritti umani. Le proteste sono talmente forti che è costretto dopo qualche mese a reinsediare il giudice. Una brutta storia, che fa perdere la faccia a Musharraf, e trasforma il partito degli avvocati e dei giudici in grande forza di opposizione, cosa che non dovrebbe mai accadere, né in democrazia né in dittatura.
Quando diventa il 6 ottobre di nuovo presidente, la Corte suprema non si fida e minaccia di non convalidarle. Allora il presidente militare sospende di nuovo la Costituzione, impone per quaranta giorni lo stato d'emergenza. È a questo punto che i cervelli mediorientali della Casa Bianca si riuniscono a Washington e alla fine di un paio di giorni di discussione ed esibizione di dati decidono che ha fatto troppo poco, preteso troppo, che la sua presenza è tanto ingombrante quanto inutile. Nasce da questa riunione riservatissima la decisione di far tornare in patria Benazir Bhutto. La sua morte, il 27 dicembre del 2007, ce l'hanno sulla coscienza tanto gli Stati Uniti quanto Musharraf e i suoi servizi segreti. Ma aver lasciato che fosse uccisa, in un percorso breve e tragico che lei conosceva bene, non ha portato bene al presidente del Pakistan.
Il 18 febbraio 2008 vincono le elezioni i partiti di opposizione: il Ppp, guidato da Asif Ali Zardari, vedovo della Bhutto, e la Lega musulmana dell'ex premier Sharif, allontanato dal potere da Musharraf nel '99. Comincia la caduta e il governo del premier Gilani l'8 agosto annuncia la procedura di impeachment.

Ieri la resa riottosa e rabbiosa, con dichiarazioni di amicizia e apprezzamento solo formali di Stati Uniti e Londra. In realtà negli ultimi giorni gli avevano mandato a dire di farsi da parte. Se hanno deciso bene oggi non si può dire, si apre una fase diversa.

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