Antonio Lodetti
da Milano
Lintroduzione di pianoforte rimanda al superclassico Baba ORiley, poi entra la chitarra dal riff tagliente e furibondo come sempre. Solo la voce è un po troppo roca e stentorea, lontana dai possenti fasti di un tempo. È così che gli Who collegano passato e presente aprendo il loro nuovo album Endless Wire, il primo dopo ventiquattro anni dassenza dalle sale di incisione. Sacrificati sullaltare di sesso droga e rnr Keith Moon e John Entwistle, sono rimasti i due barricadieri Pete Townshend e Roger Daltrey, diversi in tutto e per tutto eppur così complementari nellaver segnato il terzo polo - tra Beatles e Rolling Stones - della cultura giovanile inglese. Luno mansueto con la faccia da cavallo, gli occhi a capocchia di spillo e un nasone da Cyrano; laltro collerico ma sensuale e bellissimo tanto da venir soprannominato «angelo biondo».
Però sul palco si trovavano magnificamente. Daltrey mentre urlava i suoi inni pagani saltava come un ossesso facendo volteggiare il microfono come un lazo; Townshend sventrava gli amplificatori a colpi di chitarra prima di darle fuoco. Così, con suoni roboanti e schizofrenici, hanno scandagliato il lato selvaggio del rock. Quello delle periferie inglesi, dei mod proletari ma elegantissimi (o con Vespa e giacche militari) che battevano le strade armati di coltello a caccia di rocker sulle spiagge di Dover (che gli Who documentarono nel disco e nel film cult Quadrophenia). I testi nihilisti e i suoni grezzi degli Who, fecero da colonna sonora al movimento mod, alla ricercatezza nel vestire dei fan, allintenso uso di anfetamine. Gli slogan di Townshend («non dormo mai perché ogni giorno potrebbe essere lultimo») facevano notizia. «Il nostro stile è vera pop art - dicevano - la nuova frontiera dello stile autodistruttivo», che ha segnato lintera loro carriera. Una carriera gloriosa fatta di gioie e dolori, inabissamenti e riemersioni, storici successi come My Generation, The Kids Are Alright, I Can See For Miles, Wont Get Fooled Again, le opere rock Tommy e Quadrophenia poi i ritiri, i litigi, linfatuazione di Townshend per il guru Meher Baba fino ai recenti guai giudiziari. Ma la band non ha mai smesso di entusiasmare dal vivo. Ad un concerto del 2002 alla Royal Albert Hall, al basso cera ancora Entwistle. Suonarono per tre ore senza interruzione mentre le mura dellaustero teatro tremavano e i fan guaivano: «Fottute leggende dateci il fottuto rnr». Roba tosta; non cè accordo dissonante, nota distorta o assolo di oggi che gli Who non abbiano già suonato trentanni fa. Quindi non è facile per i miti del rock fare un nuovo disco. Loro, i pionieri, rischiano di passare per sciapi imitatori. Ma gli Who sono vecchi volponi e poi, per fortuna, la loro vena creativa è lontana dallinaridimento. Così mettono in fila una serie di brani iridescenti e variegati, che riassumono e ricostruiscono lintero puzzle delle loro radici ammonendo: «Questi non sono i vecchi Who, non abbiamo mai detto che lo sarebbero stati». Townshend dà sfogo agli accenti ora dolci ora ghignanti della sua chitarra acustica in brani in solitudine come A Man In a Purple Dress (scritta dopo aver visto La Passione di Mel Gibson) e God Speaks of Marty Robbins. Però il passo ferino dei vecchi tempi si sente nellalternarsi di toni morbidi ed esplosioni violente di Mike Post Theme (Post è lautore delle colonne sonore dei più celebri telefilm) o nella melanconia di Its Not Enough (ispirata a una scena del film Il disprezzo di Godard con protagonista la Bardot) e Black Widows Eyes dedicata al massacro di bambini di Beslan. Ottime performance; se la voce di Daltrey fosse quella di una volta si potrebbe gridare al capolavoro. Ma nei nuovi inni di Townshend (che un tempo cantava «voglio morire prima di diventare vecchio») cè la lucida autocritica che bilancia la sua follia quando dice: «Non siamo abbastanza forti, né abbastanza giovani, né abbastanza grandi».
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