Se vieni stuprata in Arabia Saudita, da una banda di sette delinquenti, ma eri in compagnia di un uomo che non è tuo marito o un familiare il giudice ti condanna a 90 frustate. Se ti lamenti e chiedi l’appello spifferando tutto ai media la pena raddoppia a 200 frustate e sei mesi di carcere, sempre in nome del Corano. Non è un incubo, ma l’incredibile storia di una ragazza di 19 anni rea di essersi appartata con un suo coetaneo e poi sorpresa dagli stupratori che hanno violentato entrambi. Ieri sono scesi in campo i pezzi da novanta della corsa alle presidenziali americane. A cominciare da Hillary Clinton, che ha rivolto un vibrante appello all’inquilino della Casa Bianca, George W. Bush, per salvare la ragazza saudita dall’incredibile ingiustizia.
«Invito urgentemente il presidente a chiamare re Abdullah (il sovrano saudita, ndr) chiedendogli di cancellare tutte le accuse contro la donna», ha dichiarato la moglie di Clinton. Il nome della vittima non è mai stato rivelato, ma sui giornali l’hanno ribattezzata la “ragazza di Qatif”, un sobborgo sciita dove è avvenuta la violenza di gruppo.
Anche l’altro candidato di punta dei democratici, Barak Obama, si è mosso per la giovane saudita con una lettera al segretario di Stato Condoleezza Rice. Le chiede di condannare apertamente l’assurda sentenza.
Nonostante le proteste, l’inesorabile “giustizia” saudita fa il suo corso. Il fattaccio è accaduto un anno e mezzo fa. La ragazza era appartata in un’auto con un suo coetaneo, quando sono stati sorpresi da una banda. In sette l’hanno violentata per 14 volte. Gli stupratori sono stati arrestati e condannati a pene che variano da uno a cinque anni. Anche loro rischiano il raddoppio della pena e forse la condanna a morte.
Il problema è che in gattabuia è finita anche la vittima, accusata di aver violato il rigido codice islamico, applicato in Arabia Saudita, che sancisce l’assoluta separazione fra uomini e donne prima del matrimonio. La ragazza di Qatif non si è data per vinta e, attraverso il suo avvocato, ha reso nota la vicenda alla stampa. La notizia ha fatto il giro del mondo infastidendo i magistrati sauditi che dovevano giudicarla.
Prima dell’appello, la giovane si è sposata, ma non è servito. L’inflessibile corte ha raddoppiato il numero di frustate a 200 e condannato la poveretta a sei mesi di galera, in nome della sharia, la legge islamica. Il ministro saudita della Giustizia ha difeso la sentenza mettendo in guardia contro i tentativi «di agitazione attraverso i media».
Non solo: Abdel Rahman al Lahem, l’avvocato che aveva difeso la donna, si è visto sospendere la licenza: «La mia cliente è vittima di un orribile crimine.
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