Con un concetto perlomeno curioso del cosiddetto principio di «selezione commerciale», un’eccezionale dose di snobismo culturale e uno scarsissimo senso del ridicolo, una libreria di Milano ha bandito dai propri scaffali uno dei maggiori bestseller degli ultimi mesi - Donne di cuori, oltre 360mila copie vendute - esponendo a sprezzo dell’autore un vistoso cartello in vetrina: «Qui non si vende il libro di Bruno Vespa».
Occhio per occhio, gogna per gogna: la libreria, sia qui scritto così da esporla al pubblico ludibrio, è la «Aleph» di Milano, nel mezzanino della stazione Lima della metropolitana, linea rossa, a quattro fermate da piazza Duomo e una da Loreto: se siete di passaggio, potete fare un salto a trovarli per non comprare uno dei loro 25.000 titoli presenti. Tranne quello di Bruno Vespa. In bella vista, però, in vetrina, spicca ad esempio l’ultimo libro di Fabio Volo.
Specializzata - significativamente - in libri di psicologia, psicoanalisi, psicoterapia e scienze umane, la libreria «Aleph» non ritiene il giornalista Bruno Vespa degno della propria attenzione. Non es dignus. Il suo, a giudizio dei titolari, è un libro inutile, o dannoso, o politicamente pericoloso. Perché evidentemente «di parte», perché compiacente con il Nemico, perché allineato con il Potere.
Nella logica perversa di questi tempi di guerra civile ideologica e di odio politico in servizio permanente effettivo, Bruno Vespa - considerato come «è noto» vicino a Berlusconi - è un connivente. Un collaborazionista. Da epurare.
Ribaltando con un orgoglioso atto di purezza intellettuale il noto principio secondo il quale «Io non condivido le tue idee, ma lotterò con tutte le mie forze perché anche tu possa esprimerle» in un più nazi-maoisticamente corretto «Le tue opinioni sono sbagliate, quindi taci», la libreria Aleph - che pure, visto il nome, dovrebbe conoscere l’amore di Jorge Luis Borges per la lettura - si è macchiata del peggior crimine culturale che si possa commettere: arrogarsi sfacciatamente il diritto di decidere chi e cosa si può leggere.
Bandire pubblicamente un libro, oltre che una pessima mossa commerciale e un boomerang politico, è civilmente pericoloso. Per ritorsione, secondo la logica degli schieramenti ideologici, domani qualcuno esporrà il cartello «Qui non si vendono i dvd di Sabina Guzzanti». Un edicolante si rifiuterà di tenere il Giornale o il Fatto Quotidiano. E un megastore si riterrà in dovere di bandire i titoli di Chiarelettere, o la catena Feltrinelli di non esporre i libri della berlusconiana Mondadori. E poi? Cosa succederebbe? Il passo successivo, nel corso della storia dell’inciviltà, è già stato compiuto molte volte.
Fu il generale Amr Ibn al-As a dare il più luminoso degli esempi, nel 641. Davanti alla Biblioteca di Alessandria, appena conquistata, si chiese cosa fare di tutti quei libri. «Se il loro contenuto si accorda con il libro di Allah, noi possiamo farne a meno, dal momento che il libro di Allah è più che sufficiente. Se invece contengono qualcosa di difforme, non c’è alcun bisogno di conservarli. Procedi e distruggili», gli ordinò il Califfo Omar. Ci vollero sei mesi per bruciarli tutti. Ma alla fine ce la fecero.
Si possono vietare i libri in modi diversi. Distruggerli, in caso di regime, è il peggiore. Autocensurandosi, nel caso di una libreria, il più subdolo. O stupido.
Un vizio antico quanto il mondo e che - archiviati sante inquisizioni, minculpop, lubjanke, maccartismi - speravamo estintosi con il secolo passato. Che invece, alla stazione Lima di Milano, è ancora fermo.
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