L’eroe carbonaro e la sua opera claustrofobica

Amico di Foscolo, sodale di Byron e Madame de Staël, cagionevole di salute e di debole costituzione, scrisse un libro che ebbe più successo dei «Promessi Sposi»

L’eroe carbonaro e la sua opera claustrofobica

Fu il classico eroe per caso. Un piccolo borghese che si imbarcò in un’avventura più grande di lui e a cui si adattò con coraggio, ma anche con quei trucchetti psicologici che fanno sembrare buona la mala sorte. Si comportò come chi ha una moglie petulante ma, costretto a tenersela, si convince di avere sposato una donna di spirito.
Aveva tutto per passare inosservato. Piccolo di statura, gracile di costituzione, cagionevole di salute. Al servizio militare fu scartato «per mancanza di misura». Nessuno avrebbe scommesso un tallero sulla sua sopravvivenza. Si ammalò più volte e ebbe l’estrema unzione a 34 anni, anche se poi morì davvero 31 anni dopo. Furono i tempi, e solo loro, a dargli una dimensione eroica quanto mai lontana dal suo carattere.
Nacque allo scoppio della rivoluzione francese e a un tiro di schioppo da dove infuriava. La madre era una pia donna savoiarda che lo educò alla fede e fece entrare in religione tre dei suoi cinque figli. Il Nostro ebbe infatti un fratello gesuita e due sorelle suore. Il padre, provenzale, era un negoziante di coloniali, versato nelle lettere e socio di diverse accademie. Ma, trascurando le spezie, finì in bancarotta. Per sfuggire ai creditori, la famiglia traslocò a Milano. Qui, sbocciò l’unica passione del ventunenne: la letteratura.
Quando vi giunse, la Lombardia era tra le grinfie di Napoleone col nome pomposo di Regno d’Italia. Il giovane mise mano alla penna e scrisse un dramma che sottopose al giudizio di Ugo Foscolo anche lui milanese d’adozione. Il Rosso Malpelo, fedele al soprannome, stroncò l’operetta e gli suggerì di bruciarla. Ma il Nostro la portò a termine e ne cavò un successo strepitoso. In Francia fu pubblicata in una collana accanto alle opere di Shakespeare. La stroncatura, lungi dall’offendere l’autore, rafforzò la sua ammirazione per Foscolo. Era una avvisaglia dell’incredibile inclinazione al perdono del giovanotto. I due divennero amici per la pelle.
Quando, sconfitto Napoleone, in Milano tornarono gli austriaci, Foscolo tuttavia emigrò in Inghilterra. Il Nostro invece non fece una piega, accomodandosi al nuovo regime. Era intimamente un legalitario e, all’occasione, avrebbe certamente collaborato coi nuovi venuti. Come scrisse più tardi, «anche con regimi estranei si possono ricoprire cariche non riconosciute infami per cooperare al pubblico bene». Foscolo, intanto, da Londra gli scriveva di raggiungerlo e «di dare al mondo l’esempio di un’amicizia senza fine». Ma viaggiare non faceva per lui. Tanto più che si era molto ben sistemato da Luigi Porro Lambertenghi come precettore dei suoi figli. In casa del conte conobbe Byron, Madame de Staël, Di Breme. Stendhal, anni dopo, ricordava con piacere il piccolo ventisettenne plein de raison e de bonne éducation.
A rovinarlo, fu proprio questo nuovo ambiente apparentemente felice. Il conte era antiaustriaco e adepto ante litteram dell’unità d’Italia. Il giovane precettore si fece trascinare anche lui dai furori complottardi. Fatale fu l’incontro nel 1820 con un musicista romagnolo sovraeccitato che morirà pazzo a New York 26 anni dopo. Costui lo introdusse tra i carbonari e, imprudente com’era, lo mise subito nei pasticci. In un battibaleno, il Nostro entrò nella lista dei sospetti. Per depistare gli sgherri austriaci, cominciò allora a scrivere lettere fasulle con la speranza che fossero intercettate. In esse, prendeva le distanze con frasi del tipo: «Possibile che il nostro povero Paese abbia ancora a temere di quelle canaglie dei Carbonari?». Ma l’astuzia non era il suo forte. D’altronde, il romagnolo pazzo e anche un altro carbonaro avevano fatto il suo nome agli inquirenti. Arrestato e tradotto a Venezia, il prigioniero tenne inaspettatamente un comportamento gelido e un silenzio di tomba. Neanche il terribile procuratore Antonio Salvotti riuscì a cavargli una parola. Ma poiché la confessione era necessaria per procedere, Salvotti, che aveva capito il tipo, lo prese sull’onore. «Se lei nega - gli disse - fa passare da bugiardi i suoi due amici». Un argomento balordo che non avrebbe smosso nessuno. Ma lui, tonto, ci cascò. «Accusare due uomini onesti di avere detto il falso - replicò - è cosa che la mia coscienza non mi perdonerebbe mai... M’abbandono ai miei giudici». E confessò di essere un congiurato, pagandone il fio.
Dieci anni dopo, scrisse un libro claustrofobico sulla sua esperienza. Un’opera commovente, piena di perdono, di abbandono a Dio, di amore verso gli aguzzini. Fu lo scritto italiano più letto dell’800. Ebbe 260 traduzioni contro le 55 dei Promessi Sposi. Un libro così arrendevole che Mazzini, il quale pure amava l’autore, commentò: «Mi noia quel suo continuo predicare rassegnazione».

E quando, anni dopo, si vociferò di una relazione tra il Nostro e la marchesa di Barolo presso la quale si era ritirato a fare il bibliotecario, Gioberti scrisse irridente: «Il maritaggio della marchesa di Barolo con madamigella, fa ridere molti. Io sarei incline a crederlo irregolare, atteso l’identità dei sessi». Morì in fama di femmina ma, a conti fatti, era stato un eroe. Suo malgrado.
Chi era?

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