«Si deve giungere a una svolta effettiva nei metodi di governo, nel modo di concepire ed esercitare il potere, nei rapporti tra partiti, Stato e società, riaffermando pienamente i principi e linee della Costituzione e ponendo mano a riforme e misure capaci di garantire il corretto ed efficace funzionamento delle istituzioni». Questa dichiarazione che sembra essere legata al dibattito politico degli ultimi mesi è estrapolata dalla lunga relazione che Giorgio Napolitano tenne sul tema delle riforme, il 7 gennaio del 1981, davanti al Comitato centrale del Pci di cui era allora uno degli esponenti di punta.
Sono trascorsi ventotto anni da quando lattuale capo dello Stato espresse quei concetti. Oltre un quarto di secolo, trascorso sostanzialmente invano, e di fronte al quale non possiamo non constatare di essere al punto di partenza, tanto che le condivisibili dichiarazioni di Napolitano dell81 potrebbero essere ripetute oggi con intatto valore.
Non cè termine più abusato nel lessico politico italiano che quello di «riforme», invocato da almeno un trentennio senza che alle parole seguano i fatti. La stessa affermazione giornalistica, accettata da tutti, secondo cui lItalia sarebbe approdata a una Seconda Repubblica è un falso storico e giuridico poiché non cè stata alcuna riforma organica della nostra Carta costituzionale, ma solo la controversa e confusa modifica di nove articoli contenuti nel Titolo V.
Il dibattito sullopportunità di modifiche costituzionali è vecchio quasi quanto la Repubblica. Nel 1964 lex ministro Randolfo Pacciardi (aveva combattuto in Spagna contro i franchisti) fonda il Movimento per una nuova Repubblica che propone ladozione di un modello presidenzialista.
Ma la vera novità sul terreno delle riforme fu lelezione di Bettino Craxi alla segreteria del Psi nel luglio del 1976, con lui per la prima volta uninfluente forza politica pone esplicitamente il tema delle riforme rompendo il totem dellimmutabilità della Costituzione del 47.
In un articolo apparso sullAvanti, il 25 settembre del 1979, il leader socialista, partendo da una radiografia dei mali della politica italiana, che individua soprattutto nel consociativismo fra maggioranza e opposizione, statalismo, inefficienza dellappartato burocratico, ingovernabilità, giunge a proporre una serie di riforme costituzionali, fino al presidenzialismo. Le idee di Craxi, alla cui formulazione collabora attivamente Giuliano Amato, aggregano forze intellettuali ma si scontrano con la netta contrarietà del Pci di Enrico Berlinguer (fatta eccezione per la minoranza migliorista guidata da Giorgio Napolitano) e della potente sinistra Dc.
Da un altro versante, Giorgio Almirante lancia un progetto organico di riforma in senso presidenzialista attivando i comitati Nuova Repubblica. E non a caso Craxi, rompendo un consolidato tabù, lo incontra.
La lunga storia delle riforme mancate passa pure attraverso una serie di atti parlamentari. Nellaprile del 1983, la Camera e il Senato approvano un documento nel quale si afferma lesigenza di costituire una commissione bicamerale per le riforme. Lanticipato scioglimento del Parlamento blocca il progetto che viene ripreso dalla IX legislatura: il 30 novembre 1983 nasce la prima commissione per le riforme istituzionali presieduta dal liberale Aldo Bozzi. I lavori approderanno, nell85, alla presentazione di una proposta di revisione di 44 articoli, con una rilevante rottura del bicameralismo e il rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio. Non se ne fece nulla.
Laltro tentativo, dopo un lungo periodo di torpore, fu il varo, nel 1992, di una seconda commissione bicamerale per le riforme, presieduta prima da Ciriaco De Mita, poi da Nilde Iotti.
Il 22 gennaio del 1997 parte la terza commissione bicamerale affidata alla guida di Massimo DAlema. Il 18 giugno, attraverso quello che verrà ribattezzato come il «patto della crostata» (dal dessert servito a casa Letta, dove si incontrarono DAlema, Berlusconi, Fini e Marini), si concretizza un accordo di massima sulle riforme da fare. Le ultime due pagine sono state scritte in anni recenti: nel 2001, a poche settimane dalla conclusione della XIII legislatura e con una maggioranza molto risicata, venne approvata dalla maggioranza dellUlivo la riforma del Titolo V (esattamente 9 articoli) confermata da un referendum con una bassissima affluenza, il 34,10 per cento dei votanti. Finisce male anche la riforma varata dal centrodestra, che viene bocciata dal referendum popolare.
Lunico risultato di questo prolungato dispendio di parole ed energie sono state montagne di carte e centinaia di convegni.
La verità è che a monte cè un insoluto scontro culturale, quasi antropologico, tra due Italie, quella torpida e farisea che si sostanzia nel partito dellimmutabilità e quella che, pur nel rispetto dei principi della Costituzione, ha la consapevolezza che il sentire democratico di una comunità si rafforza con le riforme.
Basterebbe citare padri costituenti, del calibro di Piero Calamandrei o Benedetto Croce, che avvertirono che «ci sarà un tempo in cui la Costituzione andrà rivista».
Il tema appartiene soprattutto a sinistra e alle propaggini della sinistra Dc, dove si coagula il partito della reazione. Lo scontro di oggi tra DAlema e Veltroni, Bersani e Franceschini, è lo stesso di un tempo fra Berlinguer e Napolitano.
Ventanni dopo è stato Luciano Violante a riconoscere con grande onestà intellettuale i limiti di questo atteggiamento: «Lautocompiacimento per la propria diversità... il lungo ostracismo alle riforme istituzionali sono difetti che dobbiamo riconoscere».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.