L’invisibile Malick sbaraglia tutti e non ritira neppure la Palma

Vince il favorito "The tree of life": a prendere il premio sul palco arriva il produttore, Moretti e Sorrentino restano a mani vuote

L’invisibile Malick sbaraglia tutti  
e non ritira neppure la Palma

Cannes Agli italiani è andata male ed è un peccato, perché This must be the place di Paolo Sorrentino con uno Sean Penn superbo avrebbe meritato di essere premiato. E tuttavia, nella scelta della giuria presieduta da Robert De Niro, e che vedeva due attori come Jude Law e Uma Thurman, tre registi, il cinese Johnnie To, il ciadiano Mahamat Saleh Haroun, il francese Olivier Assayas, la scrittrice figlia d’arte Linn Ullman (Ingmar Bergman e Liv Ulman i suoi genitori), i produttori Martina Gusman e Nansun Shi, argentina la prima, cinese la seconda, c’è un misto di novità e di tradizione che può mettere d’accordo.

La Palma d’oro per il miglior film a The tree of Life di Terrence Malick può essere facilmente letto come un atto d’omaggio verso uno dei registi più misteriosi e ambiziosi, nonché meno prolifici, del cinema. L’albero della vita è una sorta di meditazione visionaria sull’essere e il divenire, ricca di immagini bellissime, un po’ sbilanciata nel rapporto fra la storia in sé (una famiglia, lo scontro padri e figli) e gli interrogativi anche metafisici che Malick le costruisce intorno, ma comunque di tutto rispetto.
Per tenere fede alla sua fama di regista «invisibile», una via di mezzo fra Stanley Kubrick e Greta Garbo, Malick a Cannes non ha messo piede né in occasione della proiezione in concorso, né in sede di premiazione. Al suo posto si sono presentati i produttori...
Gli inossidabili fratelli Dardenne, con il loro Le gamin au vélo, e Nuri Bilge Ceylan, con Once upon a time in Anatolia, si portano a casa ex aequo Il Grand prix della giuria. Tradizionali nell’impianto e insieme diversissimi, scabro e scarno il primo, rigoroso e insieme logorroico il secondo, raccontano ciascuno a proprio modo il mistero della comunicazione fra esseri umani. Da Cannes raramente erano finora tornati a mani vuote: è stato così anche questa volta.

La premiazione di Jean Dujardin, migliore attore per il film L'Artiste, incorona una sfida che è insieme un atto d’amore: recitare in un film muto e in bianco e nero, e che racconta come l’avvento del sonoro segni la fine di un certo tipo di divismo, vuol dire il trionfo della cinematografia come arte di pura visione, un ritorno alle origini che però tiene conto di un pubblico più adulto, più smaliziato, più annoiato, meno disposto a sorprendersi e che quindi obbliga a lavorare sul registro dell’ironia e della leggerezza, sfruttando intelligentemente la gestualità, l’espressione e il movimento. Va detto che forse L’Artiste meritava qualcosa di più, se non altro perché Michel Hazanavicius, il suo regista, è riuscito in un’impresa che si presentava impervia anche dal punto di vista della produzione: chi mai avrebbe scommesso nel ventunesimo secolo su un ritorno all’antico di quel genere?

Eppure ci deve essere qualcosa nell’aria se anche Pedro Almodovar ha confessato di aver pensato al suo La Piel que abito come un film muto e in bianco e nero...
Miglior attrice si è rivelata invece per la giuria Kirsten Dunst: per quanto lo si possa considerare meritato, viene il sospetto che nel mettere l’accento sulla protagonista di Melancholia, il film di Lars von Trier, si sia in qualche modo voluto non tanto prendere le distanze dal modo in cui l’organizzazione aveva deciso di liberarsi di questo regista dopo le sue sventate dichiarazioni «naziste», quanto sottolineare il proprio diritto all’indipendenza in materia di scelta artistica.

Il premio come miglior regista è andato al quarantenne danese Nicolas Winding Refn per Drive: se n’è apprezzato il taglio veloce, adrenalinico quasi, e insieme una sorta di fredda ironia, nel costruire il personaggio di uno stuntman che al mattino rischia la vita guidando l’auto in riprese cinematografiche dove quell’auto finisce sempre in pezzi, e la sera facendo da autista a gang di rapinatori.
Infine, il Premio della giuria a Polisse di Maiwenn... Abbastanza giovane, senza essere giovanissima, non proprio un esordiente (tre film alle spalle), ma comunque un nome nuovo, il suo film deve aver convinto per l’occhio insolito con cui viene visto il mondo delle forze dell'ordine: la Bmp, la Brigade de Protection de Mineurs, si occupa infatti di abusi su minori e in famiglia, mille miglia lontano dal solito cliché del poliziotto corrotto e violento, del poliziotto eroico e vendicatore.

Nell’insieme, si tratta di scelte accettabili, anche se l’assenza di riconoscimenti a Kaurismaki e a Sorrentino fa un po’ soffrire.

Alla fine la regia di De Niro ha messo insieme il kolossal, il film d’autore, premiato una performance attoriale sui generis, una regista quasi esordiente, preso atto di un modo nuovo di girare film d’azione, ribadito l’indipendenza dei giurati. Va bene così.

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