L’ultimo degli imbalsamatori

È l’erede di una dinastia di imbalsamatori di papi, re, aristocratici, artisti e attori. «Da solo o con mio cugino Cesare ho imbalsamato circa 1500 salme - racconta Massimo Signoracci, 50 anni, da 30 anni tecnico dell’Obitorio comunale del Verano - ma di morti ne ho visti passare forse 40mila». Protagonisti della storia politica e di costume, vittime di cronaca nera e di tragedie familiari, e un intero esercito di sconosciuti. «La nostra famiglia iniziò a lavorare nella morgue dal 1870 - racconta Massimo -. Iniziò tutto con Giovanni Signoracci. Lo chiamavano Er Vetrinone, perché faceva vedere i morti ai parenti solo dietro una vetrina, un po’ quello che succede ancora oggi con i riconoscimenti». La massima notorietà, la famiglia, la conobbe negli anni Sessanta e Settanta con il padre di Massimo, Renato, e con gli altri due zii, Arnaldo e Ernesto, divenuti celebri come imbalsamatori di tre papi: Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo I. «Ma ora, dopo il pensionamento di Cesare, nel febbraio 2004, sono rimasto solo io. Il Comune da vent’anni non assume tecnici per l’obitorio. Dovremmo essere sei. Non posso ammalarmi, né andare in ferie. Devo fare tutto io: imbalsamazioni e ricomposizioni delle salme». Come quella delle due giovani irlandesi, Mary Claire Collins ed Elizabeth Anne Gubbins, investite e uccise da Friedrich Vernarelli, sul lungotevere, lo scorso marzo. «Oltre alla pietà, stavolta, ho provato tanta rabbia. Queste due povere ragazze irlandesi sembravano due angeli spezzati».
Che la morte renda belli è una leggenda consolatoria. «Uno dei morti che mi è rimasto più impresso è stato il famoso bandito Cimino, avevo solo 9 anni», ricorda Massimo Signoracci. Era il 1967. Il fuorilegge, protagonista perfino di una canzone, assassino di due fratelli gioiellieri, fu ucciso in uno scontro a fuoco dopo un inseguimento della polizia sulla via Nomentana, con la famosa Ferrari della squadra mobile. «Forse a causa del coma, arrivò cachettico, ridotto pelle e ossa, irriconoscibile. Come avviene alle vittime di armi da fuoco: le ferite, gli edemi, renderebbero difficile riconoscere i defunti». Insostituibile e pietosa, quindi, quella che Signoracci chiama «opera di ricomposizione delle salme», Restituire ai poveri morti la fisionomia che avevano da vivi. Come nel caso di Simonetta Cesaroni, dilaniata da 29 coltellate sul volto e sul corpo, il 7 agosto 1990 in via Poma. O di Marta Russo, ferita alla testa da un proiettile nella vicina Città Universitaria il 9 maggio del 1997, o dei martiri di Nassirya, dilaniati da un camion bomba il 12 novembre 2003. Più rare le imbalsamazioni. «Ne faccio 3 o 4 al mese. Una che ricordo in particolare fu quella di Alberto Sordi. Era il mio attore favorito ed è stato un grande onore per me, imbalsamarlo, nella sua casa dietro via dell’Amba Aradam».
Apprezzato e molto conosciuto anche nel resto d’Europa e in America, Signoracci ha solo un rammarico: non aver avuto la possibilità di continuare la tradizione famigliare di imbalsamazione dei papi. «Quando Giovanni Paolo II era in fin di vita, tutta la stampa mondiale mi indicava come il prescelto imbalsamatore di Wojtyla. Ma il Vaticano preferì rivolgersi all’università di Tor Vergata».

Massimo Signoracci, forse, pagò in quel modo la familiarità con la stampa e la popolarità (non gradite in Vaticano) raggiunta in occasione dell’esumazione di Giovanni XXIII, il 16 gennaio 2001, quando, la perfetta conservazione del Papa buono fece gridare al miracolo. Un miracolo compiuto, 38 anni prima, da suo padre Renato e dagli altri due «maestri d'imbalsamazione», Arnaldo e Ernesto Signoracci.

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