L’ultimo eroe conservatore (e illuminato)

C onservatore e intelligente, Clint Eastwood è un «ossimoro vivente» per Giulia Carluccio, che cura una raccolta di saggi sui suoi ultimi cinque film (Clint Eastwood, Marsilio, pagg. 172, euro 12), ovvero per altrettanti capolavori. Infatti Eastwood ha dato il meglio dopo i cinquant’anni come attore e dopo i settanta come autore.
Qualcosa di analogo avvenne a Vittorio De Sica, ma solo come attore. Quanto ai temperamenti, De Sica e Eastwood sono antagonisti. De Sica superò per opportunismo perfino quello entusiastico dei suoi personaggi: divo e regista fascista a fascismo trionfante, a fascismo declinante (e nazismo incombente) era regista in Vaticano, per poi cavalcare il neorealismo da genio qual era, che convinse sia la giuria degli Oscar nella prima epoca Truman, sia la critica italiana nell’epoca Zdanov. Ma bastò che guerra di Corea e questione di Trieste facessero cambiare il vento e De Sica si candidò per i monarchici nelle elezioni amministrative. E gli andò male.
Eastwood è tutt’altro uomo e dall’amministrazione pubblica ha avuto più soddisfazione: da conservatore repubblicano, se non da conservatore intelligente, è stato sindaco di Carmel, California, quando Hollywood era, come è oggi, feudo democratico. Per questo e per non aver mai attaccato il cavallo dove voleva il padrone, gli si può attribuire solo un film, Firefox, in sintonia con la Casa Bianca del momento. In quel periodo quasi nessuno, specie in Europa, s’era accorto che Eastwood si stava allontanando, o forse non era mai stato in sintonia con lui, dall’agente Callahan (Callaghan da noi), il poliziotto giustiziere cui aveva impresso memorabile grinta, tanto che è ancora proverbiale l’intimazione: «Make my Day!», in italiano più o meno «fatti sotto» (e fatti ammazzare). E pazienza se il successo in patria, giunto quando lui non ci sperava quasi più, Eastwood lo doveva proprio a Callahan.
Col pubblico italiano era stato invece, per Eastwood, amore a prima vista, dal 1964 cioè, come pistolero taciturno e anonimo in Per un pugno di dollari di Sergio Leone, il regista che lo lanciò nel cinema senza averne una grande considerazione, anche perché fra loro si capovolgeva il rapporto consueto: l’intellettuale della coppia era l’attore, non il regista.
Ma da chi va poco al cinema, da chi scambia il personaggio per l’interprete, Eastwood è stato collocato nella casella di un fautore della violenza. Non era così, ma ci sono volute decine di film perché il pregiudizio cadesse. E perché ne nascesse un altro, quello di chi lo bolla da conservatore rinnegato, perché Flags of our Fathers, Lettere da Iwo Jima e Gran Torino criticano sciovinismo e xenofobia. Prima c’erano stati Million Dollar Baby, che pareva avallare l’eutanasia, e Mystic River, che denunciava la pedofilia nel clero cattolico quando il papa non s’era ancora pronunciato in merito. Il successivo Changeling, con la condanna dell’ottusità poliziesca e della pena capitale, avrebbe tolto ogni dubbio che Eastwood e Callahan si fossero scissi.
Ora Eastwood s’infischia di tutto questo. Va per gli ottanta anni con un nuovo film, Invictis (Agli invitti), che in Italia uscirà a febbraio, e ha finito di girarne un altro, Hereafter (L’aldilà), interpretati entrambi da Matt Damon. È un’altra fase della carriera. Per lui, conservatore e intelligente non è dunque un ossimoro, perché non ha mai lasciato che fossero gli altri a dare un significato ai suoi personaggi e ai suoi film; e perché non s’è lasciato condizionare da colore della pelle ed etichette politiche nella scelta degli interpreti. Ha recitato in film dove le donne erano un orpello, ne ha diretti dove le donne davano senso alla vita di un uomo, o di un vecchio. Ha trovato nel canadese Paul Haggis, italiano per residenza, lo sceneggiatore capace di sfaccettare ogni personaggio; e con lui ha ricomposto moralmente il conflitto col Giappone, provando a contribuire, indirettamente, a ricomporre quello con l’Islam.
Due mesi fa, a Lione, dove lui riceveva un premio da Thierry Frémaux e Bertrand Tavernier, chiesi a Eastwood il suo segreto. Mi disse: «O si striscia, si baciano i piedi, si scrivono solo storie a lieto fine, si firmano lunghi contratti e non si lascia mai Hollywood. O si fa il contrario». Sostituite Hollywood con qualsiasi altra località e il cinema con qualsiasi altra professione: avrete uno stile valido sempre e ovunque.
Eastwood è un esempio, più che un ossimoro.

Non è poco per lui, che esordì nel cinema in un filmetto di fantascienza - era il 1955 - pilotando col volto coperto dalla maschera dell’ossigeno un caccia-bombardiere che si scagliava su un ragno gigantesco. Non è poco per lui, che Sergio Leone capì a metà, ritenendolo capace solo di due espressioni: «Col sigaro e senza».

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