L’Unità volta pagina. Col partito democratico arriva l’editore di Libero

Il quotidiano fondato da Gramsci, organo di partito dei Ds, potrebbe passare alla famiglia Angelucci

L’Unità volta pagina. Col partito democratico arriva l’editore di Libero

da Roma

Il giornale di Antonio Gramsci nelle mani degli Angelucci, è già una notizia: dalla lotta di classe alle convenzioni sanitarie, passando a uno dei gruppi più potenti della scena nazionale - la Tosinvest - già editore di due quotidiani come Libero e Il Riformista, una società mica male, 500 milioni di liquidità in cassa. L’Unità da Gramsci agli Angelucci, è una notizia politica, perché lo stesso colpo non è riuscito ai Toti, i costruttori più vicini al Walter Veltroni e nessuno sa perché. Ed è notizia anche per le smentite che non smentiscono, e per le recenti disavventure giudiziarie della famiglia. I giornalisti insorgono, ieri il Cdr ha lanciato l’allarme: «Aiuto, ci comprano!». Marialina Marcucci, presidente della Nie, la società che edita il quotidiano, spiega a Il Giornale: «Che abbiamo venduto non affatto è vero». Ci sono contatti? «Ah, questo sì». Gli Angelucci si sono proposti? «Ci sono state serissime dimostrazioni di interesse». Caspita: «Ci sono contatti da agosto. Conosco uno dei figli, sono imprenditori di cui tutti riconoscono peso e ruolo, sono editori. Aumentare i suoi azionisti rafforza l’Unità». Tradotto in soldoni: non abbiamo ancora chiuso ma non vediamo l’ora.
L’Unità perde qualche copia (oggi è a 45mila rispetto a 55mila del 2006), ha un deficit di 1.2 milioni di euro (relativamente poco), gode del finanziamento di partito e acquista incredibile valore sul mercato nel giorno in cui nasce il Partito Democratico, che è un certificato di presentabilità sociale nel Palazzo. Fra l’altro, il giornale fondato da Antonio Gramsci il 27 dicembre esce dallo stato di crisi che ha permesso 7 prepensionamenti. Se ti chiami Angelucci, fai affari e già possiedi il quotidiano di Vittorio Feltri che ti copre a destra, che puoi fare di meglio se non comprarti il principale media di centrosinistra? Se non altro aiuti molti interlocutori a dimenticare l’inchiesta della procura di Bari sugli appalti della sanità e l’accusa di aver pagato 200 milioni di tangente per ottenere il controllo di 11 residenze per anziani (ovviamente vinto dal gruppo).
Il bello è che in quel meraviglioso salotto postcomunista de l’Unità gli Angelucci ci erano già entrati una volta, anche se chiusi in uno strapuntino societario, una quota di minoranza quando il grosso del giornale era in mano ad Alfio Marchini. Nei Ds circolavano aneddoti mitologici come quello riferito da una dirigente del calibro di Giulia Rodano, ex assessore alla Sanità nel Lazio, che aveva ricevuto le lamentele di un sindaco della Quercia. Infatti a lui si era presentato uno dei tre fratelli, che chiedendo conto di un appalto difendeva così le ragioni del gruppo: «Sa, io sono uno di quelli che ha comprato l’Unità...». Al che il sindaco, arrabbiato per l’avance, aveva risposto prendendo una copia del quotidiano sul tavolo: «Sa, l’Unità l’ho comprata anche io. All’edicola costa un euro». Poi era arrivata la drammatica chiusura, con annesso il documentario-choc di Daniele Segre, girato dentro il giornale in agonia. Il film era stato proiettato in dieci puntate al festival di Venezia fra applausi e lacrime, compreso l’episodio incredibile di Massimo D’Alema (allora premier) contestato dai redattori nell’ultima visita in redazione. Il direttore era Peppino Caldarola, che curò una edizione Online corsara, e Stefano Bocconetti cronista con vocazioni post-settantasettine all’hackeraggio - oggi emigrato a Liberazione - minacciava il commissario liquidatore davanti alla telecamera: «O pagate gli stipendi, oppure io in un nanosecondo entro nel sistema e lo distruggo!». Lacrime, rabbia e sangue. La lettera di una anziana militante: «Ho una piccola pensione di reversibilità di mio marito partigiano. Questo mese la sottoscrivo tutta per salvare il giornale che lui ha comprato per una vita». Lacrime rabbia e commozione: ma il sacrificio non bastò, il giornale chiuse.
Poi ci fu la resurrezione curata dall’editore Alessandro Dalai (a onor del vero non ci credeva nessun altro). Giampaolo Pansa scrisse su L’Espresso un manifesto su come avrebbe dovuto essere il giornale, Paolo Mieli spiegò a Prima Comunicazione che l’equilibrio virtuoso era 50 redattori per 50mila copie. Ci fu una doppia direzione Furio Colombo-Antonio Padellaro e si gridò al miracolo: conti risanati, giornale gridato, accattivante, presente in ogni dibattito e persino animatore del movimento girotondino. Poi, dopo una feroce polemica con Piero Fassino per un titolo sul segretario contestato dai pacifisti, Colombo venne fatto fuori. Padellaro si salvò ma l’identità del giornale no, i redattori sono già 75.

Un po’ house organ un po’ no, ora gli imprenditori veltroniani restano fuori, il leader non dice una parola sul quotidiano e i soldi arrivano «per via sanitaria». Ma nessun pensionato - presumibilmente - darà mai la vita per gli Angelucci.

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