Roma - Che fretta c’era, caro Presidente? Avresti potuto dare tempo al tempo, prenderti gioco un altro po’ degli acciacchi come negli ultimi tempi hai fatto della politica del Paese che hai amato più d’ogni cosa. Sia pure talora disprezzandolo, come chi ama troppo e sente vizi e debolezze parte di sé, prima ancora che del prossimo suo. Sembra di intuire la risposta: non potevo, ho sempre bruciato le tappe, ogni tappa. E, ciononostante, sempre nel posto giusto nel momento giusto. La chiave di tutto sta in questo tuo rapporto speciale con il tempo, forse, e purtroppo non c’è stato verso di chiedertene conto nelle tante interviste che affrontavi (e chiedevi) con divertita voluttà, piccoli antidoti alla noia. Al nulla che vedevi attorno a te. Una medicina come le altre, per non cadere nei vortici di buio. Così, per esempio, divoravi tivù, internet e libri. E scrivevi: lettere-fiume o bigliettini spiritosi. Talvolta eccedendo, come quell’epistola al Pontefice che, visto il tono e i contenuti, ti impedirono di inviare. «Dimmi un po’ te, giornalista, che te ne pare, non ho ragione? Mia figlia non vuole, ma ...».
Non resistevi alla voglia di spedirla, gli occhi ti brillavano: ti vedevi il volto corrucciato di Benedetto, pregustavi l’ingaggio intellettuale della risposta.
È nel tempo il tuo segreto, mi sembra ora di intenderlo. Hai preso la maturità classica a 16 anni, in piena epoca di guerra, nel ’44. Tre anni dopo, a 19 e mezzo, eri dottore in giurisprudenza. A 17, ti sei iscritto alla Dc. Si guardano le date del cursus honorum, e la circostanza diventa evidente: il più giovane sottosegretario alla Difesa nel febbraio del '66 (terzo governo Moro, 38 anni), il più giovane ministro dell’Interno (nel 1976, 48 anni), il più giovane presidente del Senato (1983, 55 anni), il più giovane inquilino del Quirinale (1985, 57 anni non ancora compiuti). Era un’altra politica, sicuro, e alcuni di quei primati sarebbero facilmente caduti nella stagione che viviamo. Ma allora ogni passo era un po’ più cruento: appartenevi alla Fuci, l’organizzazione cattolica, e organizzasti un «ribaltone» nella Dc sassarese per far fuori l’inamovibile ras locale, Nino Campus, cugino di Antonio Segni. L’operazione ti valse il titolo di capo dei «giovani turchi» e ti consentì di prendere il largo nella Dc nazionale: cosa comunque non facile, pur essendo di antica e coriacea famiglia còrsa - come spesso scherzavi, spiegando che Còssiga (si dovrebbe pronunciare così) non significa altro che «Corsica». Nobiltà di «toga», aggiungevi con orgoglio, e profonde radici nella massoneria d’antàn.
Quando nella bagarre del Parlamento, alla nascita del governo D’Alema - da te voluto e coccolato come un figlioccio, tanto che gli avevi appena regalato un bambolottino di zucchero ironizzando sui comunisti mangiabambini -, l’onorevole Pera ti investì di epiteti a te cari («siete barbaricini, dei briganti, dei rapitori!»), rispondesti di conoscere perfettamente le tue origini, «contrariamente a chi ha un cognome di cosa, come si usava dare alle famiglie la cui origine era ignota e la nonna un po’ facile...». Lessi il tuo nome per la prima volta su un muro di Napoli, nel’77. Le due «esse» erano folgori delle «SS», la «C» iniziale un «cappa». Nel marzo di quell’anno caldo, a Bologna, negli scontri tra studenti e forze dell’ordine, era stato ucciso un militante di Lotta continua, Lorusso: la tensione arrivò al culmine, ma tu, dal Viminale, inviasti i blindati nella zona universitaria. Maniere forti, dunque, e chissà: anche una sorta di premonizione, visto che l’anno dopo - proprio con il terrorismo - ti trovasti a giocare la partita che avrebbe cambiato il corso della tua vita: il caso Moro. Non eri di quei democristiani che se ne lavano le mani. Quando c’era da combattere pretendevi la prima fila, come il generale di quei bellissimi soldatini che hai collezionato per anni.
Già nel 1966 eri stato scelto - si presume in virtù dei buoni rapporti con la Cia dei quali ti sei sempre vantato - come sovrintendente della sezione italiana di Stay Behind Net, organizzazione segreta della Nato. In Italia fu meglio conosciuta come «Gladio» allorché Giulio Andreotti, pare per rifilarti un tiro mancino (dal Quirinale in quel periodo «picconavi», eccome), concesse al giudice Casson di accedere agli archivi Sismi a Forte Braschi e ne nacque il solito scandalo con richiesta di messa in stato d’accusa da parte del Pci-Pds. Somma ipocrisia, ricordasti, in quanto «il Pci conosceva da tempo dell’esistenza di una struttura difensiva segreta con le caratteristiche di Gladio». Insomma, ben sapendo la sorte che attendeva il povero Moro, da ministro dell’Interno seguisti il destino passo dopo passo, come in una tragedia greca.
«Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle - dicesti a Paolo Guzzanti - è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro». Quando Moro fu ritrovato in via Caetani, ti dimettesti. Non in segno di sconfitta, semmai di solidarietà con il dolore che ormai avevi fatto tuo. Ciò che serviva alla comunitas era quell’agnello sacrificale, uno per tutti, e tu eri stato scelto per compiere il rito. Ciò che era scritto. Questa l’idea che, parlandone, avevi dato e di più non chiesi. Dopo una storia del genere, quello che viene in seguito è burla o quasi. Persino le aspre battaglie con il Pci di tuo cugino per parte di madre, Enrico Berlinguer, e con gli «zombi con i baffi» d’ogni epoca e partito.
Grazie a questo rapporto speciale con il tempo, con il tuo tempo, sei riuscito a vivere la tua storia contemporaneamente come attore protagonista, regista occulto, spettatore divertito.
Più che «cattivo», come nella vulgata, capace di crudeltà ineffabili. Ma anche di bontà inaspettate. Come la vita, al di là del bene e del male. Senza di te, caro Presidente, s’è perso il gusto. La politica, il suo mordente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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