LANGEWIESCHE «L’arte di staccare l’anima da terra»

Dopo Ground Zero e i mari, il celebre scrittore-reporter alza il tiro e indaga su quella che è l’essenza stessa del volo: la virata

Nel settembre 2001, a poche ore dall’attentato alle Torri gemelle, William Langewiesche si catapultava sul posto per seguire in prima persona la delicata e rischiosa operazione di sgombero delle macerie, durata diversi mesi e raccontata nel libro American Ground. Circa tre anni dopo raccoglieva in Terrore dal mare i risultati di altre inchieste giornalistiche che lo avevano portato in giro per il pianeta sulle tracce di marinai e di passeggeri sopravvissuti a naufragi di superpetroliere e di traghetti; nonché di pirati, di terroristi e rottamatori di navi.
Ora esce La virata (Adelphi, pagg. 68, euro 5,50), un suo scritto riguardante la precedente e non meno avventurosa fase della sua vita. Infatti, prima di diventare giornalista e scrittore, William Langewiesche è stato un pilota civile. Possiamo immaginare che soffrisse parecchio nel redigere gli scabri rapporti per la linea aerea, o gli ingessati articoli di carattere tecnico per le riviste di aeronautica. Ma dopo aver messo il cargo in garage - o meglio nell’hangar - ha potuto finalmente dare libero sfogo al suo talento nelle inchieste per Atlantic Monthly, la rivista a cui collabora da una quindicina d’anni.
Nel libro La virata, come nelle sue inchieste, non si limita a descrivere con precisione, a documentare, a raccontare con fluidità, ma attinge anche ai più diversi ambiti dello scrivere e ai più diversi campi del sapere - sempre con cognizione di causa - e riesce a conferire una profondità eccezionale ad atmosfere, luoghi, situazioni, personaggi, ricorrendo a immagini folgoranti che hanno del visionario. Non ultimo, ha il dono di coinvolgere il lettore, come quando racconta di un volo notturno al largo dell’Oregon: «Ero solo, ai comandi di un monoelica in affitto. Il cielo era coperto, le nuvole alte. Laggiù in fondo, davanti a me, vedevo le luci di un peschereccio solitario. Volando a circa un miglio dal pelo dell’acqua, ho superato il peschereccio e mi sono gettato a capofitto nella notte. Era qualcosa di simile a una solitudine assoluta: le nuvole nere, il mare sconfinato, le tenebre, e poi il mondo a parte dell’abitacolo, e dentro quel mondo il paesaggio del pannello di controllo. Gli strumenti mandavano una luce calda. Sui loro quadranti, nei loro punti, nelle loro linee, tutta la strana storia del movimento e del volo».
William Langewiesche, com’è nato questo scritto dal titolo così tecnico, e che cosa può trovarci di interessante una persona comune?
«All’inizio degli anni Novanta il direttore di Atlantic Monthly mi chiese un pezzo su un argomento a cui tenessi particolarmente e di cui sapessi praticamente tutto, e io scelsi la virata. Non l’ho scritto per gli specialisti, bensì per i semplici amanti del volo. Chiunque lo abbia provato e abbia colto la sua bellezza può essere interessato a conoscere la sua parte essenziale. Per me la virata è l’anima del volo».
Che cosa la rende così importante?
«Il volo in sé, cioè il semplice alzarsi da terra, non è così difficile. I suoi esordi avventurosi e poco disciplinati lo dimostrano. Il vero punto di svolta, raggiunto il quale si può dire di saper volare, è quando sai fare bene la virata. Un segreto così semplice eppure così difficile da imparare».
Che se non ho capito male consiste nel diffidare del proprio istinto e compiere un «atto di fede» negli strumenti tecnici.
«Esatto. Per capirlo ci è voluto del tempo e molta intelligenza. La storia del volo è fatta di qualche grossa intelligenza e purtroppo di tanta crassa stupidità. Ci sono anche esempi recenti, come quello di John Kennedy junior. A uccidere lui, sua moglie e sua cognata è stato un suo errore grave e stupido. Mia mamma diceva sempre: “Non c’è cura per la stupidità” e aveva ragione. Il cielo, però, una cura ce l’ha, ed è definitiva».
Quando è cominciata la sua passione per il volo?
«Vengo da una famiglia di piloti. Mio padre era un istruttore di piloti di caccia e mi ha messo su un aereo all’età di tre anni».
Nel senso che l’ha portata a fare un giro...
«No, nel senso che mi ha lasciato i comandi. Con una mano reggevo il biberon, con l’altra stringevo la cloche. Poi a diciott’anni ho preso il brevetto e ho cominciato a lavorare sui cargo, sui jet e su molti altri generi di aeroplani».
Mi ha molto impressionato la descrizione del suo volo solitario di notte sul mare. Sembra un esperimento scientifico, come quelli condotti dai pionieri del volo.
«Ho un enorme rispetto per loro. Il mio libro è anche un omaggio ai fratelli Wright e a molti altri piloti meno noti, che hanno reso sicura la nostra navigazione di ogni giorno».
Nel libro parte dal concetto di «enigma» e arriva a un «atto di fede». C’è qualcosa di sacro per lei nel volo?
«No. Per me il volo non ha niente di spirituale. È piuttosto qualcosa di naturale, una bellissima esperienza della natura. Mi ha sempre sorpreso che l’uomo ci abbia messo tanto per arrivare a usare un espediente così semplice come le ali».
Ha mai provato l’euforia di Icaro?
«Molte volte. La provo ancora adesso a cinquant’anni. Soprattutto nella fase di decollo, quando senti la spinta verso l’alto. Per me è un’esperienza estetica vera e propria come la musica, l’arte, la scultura. Mi capita anche col deltaplano».
Il suo stile è concreto, ironico, pieno di immagini molto suggestive.
«Applico un tipo di scrittura letteraria ad argomenti che normalmente sono affrontati con un taglio giornalistico. La non-fiction è un genere già completamente sviluppato nei paesi di lingua anglosassone, che ora si sta sviluppando anche in Europa.

Attualmente credo che sia la parte più vitale della scrittura e che offra le cose migliori. Più della fiction, troppo accademica e autoreferenziale. Sono stati i professori a rovinarla, ma per fortuna i giovani sono sempre più attratti dalla non-fiction».

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