Roma - Nel secondo trimestre di quest'anno - dice l'Isfol - le assunzioni a tempo indeterminato sono state il 15% del totale. E solo una piccola parte di queste sono state segnalate da aziende con oltre 15 dipendenti. Vale a dire, che già oggi l'articolo 18 non viene applicato ad oltre l'80% dei nuovi contratti. La legge delega - pertanto - interviene nelle specifico solo per una percentuale minima di nuovi lavoratori. E lo farà nemmeno a brevissimo tempo.
L'emendamento presentato dal governo alla Legge delega di riordino del mercato del lavoro («Jobs Act») introduce il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. E nella sostanza, elimina il diritto al reintegro previsto dall'articolo 18. Ma i tempi perché questo istituto possa essere sperimentato non saranno brevi. L'emendamento prevede che «il governo è delegato ad adottare, su proposta del ministro del Lavoro, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi» in materia. La legge in questione è il «Jobs Act» che il governo conta di approvare entro ottobre. Una stima abbastanza ottimistica. All'ingorgo legislativo legato alle riforme istituzionali (legge elettorale, riforma del Senato), tra breve, si aggiungerà anche la legge di Stabilità; e con essa, la sessione di bilancio.
Ne consegue che - nel migliore dei casi - la legge delega potrà essere votata dal Parlamento entro la fine dell'anno. A quel punto, il ministero del Lavoro ha sei mesi per predisporre i decreti legislativi. Gli stessi, però, prima di diventare operativi dovranno avere un passaggio parlamentare eppoi tornare al consiglio dei ministri che li ha, in precedenza, approvati. Insomma, saranno necessari dodici mesi prima che l'emendamento che introduce il superamento dell'articolo 18 potrà essere trasferito nell'ordinamento giuslavoristico. E forse un anno non sarà sufficiente per la sua operatività. Oltre ai decreti legislativi, il ministero del Lavoro dovrà anche diffondere le norme applicative.
Vale a dire che - verosimilmente - bisognerà aspettare l'inizio del 2016 per arrivare alla prima azienda con più di 15 dipendenti che assuma un neo lavoratore a cui verrà applicato un contratto di lavoro con tutele crescenti, e senza il diritto di reintegro in caso di licenziamento. Allora perché tutta questa tensione? Con Susanna Camusso che chiede a Renzi: «Basta insulti al sindacato: guardiamoci negli occhi e discutiamone». E dice: «Mandare tutti in serie B non è estendere i diritti e le tutele». Perché il governo, entro il 15 ottobre, non deve inviare a Bruxelles soltanto la legge di Stabilità, ma fornire anche un Piano nazionale di riforme. Ed è su queste riforme che la Commissione si baserà se concedere o meno l'elasticità di Bilancio, prevista dai Trattati Ue.
E visto che la riforma del mercato del lavoro è una di quelle riforme che Bruxelles chiede da anni, ecco la necessità del governo di forzare i tempi. Anche perché, già da un punto strettamente aritmetico il deficit di quest'anno sfiora pericolosamente il 3%. E potrà restare su questi livelli (infrangendo la riduzione dello 0,5% annuo) del deficit strutturale solo a patto delle riforme strutturali.
C'è un precedente. Quando il governo Berlusconi varò la riforma delle pensioni (il cosiddetto «scalone Maroni») ne fece scattare l'introduzione tre anni dopo il voto parlamentare: approvata nel 2005, doveva entrare in vigore nel 2008. E nel 2005 l'Italia si fece anche promotore della revisione del Patto di Stabilità.
Grazie a quella riforma del Patto ed allo «scalone Maroni» l'Italia potè toccare quell'anno un deficit al 4%, senza procedure d'infrazioni vincolanti. Lo «scalone Maroni» non entrò mai in vigore: venne cancellato dal governo Prodi nel 2007. Monti lo rivitalizzò con la riforma Fornero.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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