La lezione I pericoli del buonismo

di Giuseppe Cecere

Taj Mahal è il nome di una delle meraviglie del mondo: il mausoleo che il principe moghul Shah Jahan, sovrano musulmanodell'India settentrionale (vissuto tra il 1628 e il 1658), fece costruire in onore della moglie Mumtaz Mahal ad eterna testimonianza del loro amore e dello straordinario rilievo avuto dalla sovrana nella vita del marito, esponente di una delle più raffinate e «tolleranti» dinastie nella storia dell'islam. Taj Mahal è anche il nome di uno dei due alberghi di Mumbai assaliti dai terroristi “islamisti“, fanatici assertori di una ideologia “religiosa“ radicale e violenta. Ironia della storia, la complessità della presenza musulmana in India è come racchiusa in questa surreale omonimia, tra il monumento-simbolo di una civiltà di splendori e l'ennesimo luogo della topografia di sangue che il terrorismo islamista sta disegnando nel mondo. Nel Paese i musulmani sono circa 140 milioni, il 14% della popolazione (seconda comunità religiosa dopo l'induismo). Oggi appaiono in crisi di identità: non solo per le tante differenze «interne», ma per la difficoltà a trovare una collocazione stabile nella visione laica della società affermata dalla Costituzione indiana.
Da un lato, infatti, i musulmani indiani sono ancora divisi nei due principali gruppi: gli Ashraf, discendenti dalle varie genti islamiche straniere penetrate nel Continente, e i «convertiti» locali; questi ultimi, passando dall'induismo all'islam, hanno mantenuto molte caratteristiche della cultura originaria, come la sostanziale conservazione del sistema delle caste.
D'altra parte, i musulmani rivendicano la loro specificità di «minoranza culturale» anche nella sfera politica e giuridica, difendendo il presunto «diritto» ad una legislazione separata, basata sulla sharia, in materie come il diritto matrimoniale, garantito loro da una legge del 1937, mai abrogata. Rimase celebre il caso, nel 1985, di una donna musulmana che, chiesta al giudice l'assegnazione degli “alimenti“ dopo essere stata ripudiata, scatenò le proteste degli islamisti, che riuscirono ad ottenere addirittura una legge per impedire alle donne indiane di religione musulmana di accedere ad un istituto (il mantenimento dopo il divorzio) previsto dalla legge indiana ma non ammesso dal «diritto islamico». Ancora una volta, la rivendicazione della specificità culturale si risolve nel rifiuto del principio di laicità, e nella ricerca di soluzioni “multi-giuridiche“ che distinguono (e discriminano) i cittadini in base alla loro appartenenza religiosa e alle loro condizioni personali. Ma l'atteggiamento «islamicamente corretto» dello Stato indiano, finora, non ha prodotto risultati esaltanti: anzi, le tensioni tra musulmani e indù sono andate crescendo, nel quadro di una escalation globale dell'islamismo radicale.

Al di là della riflessione su metodi e forme del terrorismo internazionale di matrice «islamista», la situazione indiana è l'ulteriore dimostrazione che, quanto più si cede - per una malintesa idea di “tolleranza“ - sul terreno dell'uguaglianza giuridica dei cittadini e della laicità dello Stato, tanto più si rischia di dare forza alle ideologie dell'odio e dell'intolleranza. L'Europa - a cominciare dalla Gran Bretagna, tentata dalla “apertura“ del sistema giuridico alla sharia - dovrebbe fare tesoro del terribile insegnamento che viene oggi dal Taj Mahal.

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