Libro nostro che sei nei cieli. Avevo già un’idea un po’ lugubre e un po’ eterea dell’e-book o della pennetta che raccoglie la biblioteca in un dito sapiente; ma ora che è possibile traslocare i libri elettronici in una nuvola che li condensa in uno spazio celeste, ho l’idea della loro definitiva esalazione. Sto parlando del cloud computing, l’archivio o biblioteca trasferito su una nuvola web per non gravare sulla memoria del pc e non contare sulla sua rischiosa smemoratezza. Sembra un racconto di Borges. Il libro diventa così un’entità metafisica, extraterrestre. Da un punto di vista filosofico, con la nuvoletta web si torna dall’idealismo soggettivo all’idealismo oggettivo. Da un verso mi piace pensare che i libri tornino in cielo, come gli archetipi di Platone, e vadano ad abitare su una nuvoletta, nell’Iperuranio. Ma dall’altro mi spaventa pensare alla perdita della loro fisicità, al loro disincarnarsi o al raccogliersi in urna virtuale, come le ceneri di un’opera e di un autore. Di loro resta in eterno solo la loro immagine mobile, che è poi la definizione del tempo in Platone; ma qui applicata al display dell’iPad, che diventa citofono dell’etere.
Nella sua collocazione celeste il libro diventa un’esperienza purissima, senza la corruzione dei corpi, visibile ma intangibile, facilmente disponibile ma remota, lontanissima. Negli spazi infiniti, direi con angoscia leopardiana. È consolante solo pensare che nel giorno del giudizio, una pioggia di libri - che precipitando nell’atmosfera riacquistano la loro originaria consistenza - colpisca inesorabilmente l’umanità refrattaria alla lettura.
Per carità, liberare le idee dallo spazio è un vantaggio e forse una figata. Le case piccole del nostro tempo, la vita mobile della nostra epoca, le mutazioni famigliari e le separazioni, rendono difficile barricarsi intorno a una biblioteca, bisogna essere duttili, e portarsi l’anima delle cose, non affezionarsi agli oggetti. L’hardware cede al software, i beni immateriali cancellano i beni materiali.
So per esperienza provata quanto dolore susciti avere una biblioteca corposa quando viene violata, anzi profanata e mutilata, o anche semplicemente spostata, smontata e rimontata. Vivo di traslochi e so quanto è duro tumularla negli scatoloni, da dividere per settori e da riaprire e riadattare a nuovi scaffali per la resurrezione. I libri pesano, mai creature più evanescenti, fatte di anima, mente e parole, furono così ponderosi come i libri.
Per anni ho portato a spasso nel mondo il mio cane randagio, di razza trolley. L’ho scarrozzato nel mondo col suo rigido guinzaglio ed era il muto testimone di un’esistenza viandante. Avrei adottato una mobilità più radicale se non avessi dovuto ancorarmi a una casa e costringermi agli arresti domiciliari, la biblioteca-piovra con le sue ramificazioni tentacolari in tutta la casa.
Ora vivo in una piccola casa con mille fratelli maggiori. Singolarmente non occupano molto spazio perché i loro corpi sono di carta; chi mezzo, chi un intero ripiano, chi lo spazio di un libro. Come avrete capito, i fratelli maggiori di cui parlo sono appunto gli autori dei libri che gremiscono la mia biblioteca. Sono fratelli a volte più antichi di Cristo, come Omero e i filosofi greci, altri sono più vicini nei secoli, qualcuno l’ho conosciuto e taluno è vivente. Tra loro c’è pure uno scaffale con 25 costole mie, i libri miei, figlioli immaginari.
Mi piace organizzare con i miei mille fratelli feste a sorpresa, soprattutto d’autunno e d’inverno, e passare serate in affollata solitudine, fermandomi ora con un fratello maggiore ora con un altro, per una rimpatriata e una riscoperta; a volte ricordando insieme qualcosa, a volte rubando loro un pensiero, un giudizio, un’atmosfera. È bello avere compagni di solitudine. C’è chi vorrebbe procedere alla cremazione dei fratelli maggiori, conservando la loro cenere in una più agile urna, l’e-book, la chiavetta, o affidando il loro ricordo alla clemenza della rete che tanto contiene e troppo ricorda, anche robaccia. Ma l’esperienza tattile del libro è imparagonabile, insostituibile; non basta vedere un testo su uno schermo, bisogna toccare il loro corpo plasmato dal tempo, sentire la loro età, il loro odore, la loro cartilagine. Ma il libro, più che all’auto, somiglia al tappeto di seta: più è usato e più ha valore. Dico valore affettivo, storico, prima che commerciale. Proporrei anzi di non chiamarlo più libro usato, ma libro vissuto. Perché i libri, come insegnano i mille fratelli maggiori, sono vita raccolta in carta e pensieri, e averli letti, toccati, chiosati, li rende più veri. Ogni lettore aggiunge uno strato di vita. Certo, poi ci sono i libri abusati o logorati dal tempo, squinternati e ridotti a una degradata vecchiaia. Ma i libri rugosi che odorano di vita e lettori sono più ricchi, migliorano con l’uso.
Bisogna distinguere, per libri e giornali, tra consultazione e lettura: la prima si può fare on line, la seconda no perché subentra un rapporto affettivo e sensuale. Come non basta una telefonata o un contatto in rete per incontrare una persona cara e per amarla, così è la lettura. Hai bisogno del corpo del beato.
Non c’è settimana in cui non si leggano annunci di morte per il libro di carta stampata. Funerali anticipati, a volte con una punta di sadico compiacimento, di barbarie nascosta nell’ipermodernità, rivestita di tecnica. Talvolta i sadomaso sono autori di libri che si compiacciono a soffrire facendo soffrire. In questo Paese scrivono tutti ma non legge nessuno. Chi ha i mezzi non ha tempo per leggere, e chi ha tempo non ha mezzi.
Mi auguro che finisca prima l’uomo del libro, e che il post-libro riguardi i post-umani, non noi e chi sarà come noi.
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