Sei candidature all'Oscar - tra cui miglior film, regia e attore protagonista - per un film girato dal regista che Hollywood non ama per niente: Mel Gibson. Dovrebbe bastare questo fatto, magari sommato ai 10 minuti di applausi al Festival di Venezia, a far riflettere su La battaglia di Hacksaw Ridge. Gibson è un regista che è sempre piaciuto al pubblico ma un po' meno alla critica. Un regista che ha pagato, oltre a qualche mattana personale, non proprio una novità nel mondo delle star, anche il fatto di aver spesso trasposto nelle sue pellicole un cristianesimo radicale poco digeribile.
Ecco, quel cristianesimo c'è anche in Hacksaw Ridge, ma assume una forma e una forza diverse, appoggiandosi a una storia vera, per quanto quasi incredibile. Il film racconta la vicenda bellica del soldato/infermiere Desmond Doss (1919-2006), interpretato da Andrew Garfield. Doss durante la Seconda guerra mondiale divenne il primo obiettore di coscienza andò in guerra, ma si rifiutò di andarci armato a ottenere la «Medal of honor», la più alta onorificenza bellica americana, l'equivalente della nostra medaglia d'oro al valor militare. Doss, cresciuto a Lynchburg, nella Virginia profonda, era figlio di William Thomas Doss, uno di quegli americani che avevano combattuto nelle trincee della Prima guerra mondiale. Dalla guerra William aveva riportato indietro un dolore enorme per i compagni caduti e un alcolismo cronico che lo spingeva a improvvise e devastanti crisi di rabbia. La madre di Desmond era invece profondamente religiosa e membro attivo della Chiesa Avventista del Settimo giorno. Tutto questo fece di Doss una persona con le idee molto chiare. Non voleva neanche toccare un'arma. Non ci pensava nemmeno, però, a non fare il proprio dovere al fronte. E per lui il dovere era semplicissimo e chiaro, come un comandamento di Dio. Ovvero, salvare come infermiere il maggior numero di soldati possibile.
L'esercito americano non glielo rese facile, subì violenze e angherie in caserma e rischiò anche la corte marziale. Ma alla fine arrivò a Okinawa (la battaglia per l'isola durò dall'aprile a quasi tutto il giugno del '45) e sul costone di Hacksaw Ridge, rimasto solo nella terra di nessuno, dopo un violento contrattacco giapponese, lui riuscì a mettere in salvo 75 soldati feriti. Questo muovendosi in un terreno infernale pieno di pattuglie nemiche e calando soldati straziati dai proiettili ai piedi di una scarpata, potendo contare soltanto sulla forza delle sue braccia. Mentre lo faceva, venne ripetutamente colpito. Ma non si fermò mai, continuando a ripetersi: «Dio ti prego fammene trovare un altro».
Una storia bellissima e quando, alla fine del film, le immagini lasciano lo spazio alla testimonianza dei reduci e a quella dello stesso Doss, tutta la narrazione assume un tocco di verità impressionante. Ma alla fine la forza del film non è questa, o non solo. Questo tipo di memoria ce l'hanno già trasmessa in maniera iconica e perfetta Steven Spielberg (Salvate il soldato Ryan), Terrence Malick (La sottile linea rossa) e soprattutto Clint Eastwood (il dittico sulla battaglia di Iwo Jima).
In questo caso il valore narrativo è dato dalla capacità di Gibson nel mettere sullo schermo la forza di una fede «integrale», il che non significa integralista. Gibson coglie tutta la forza della diversità di Doss e della sua battaglia morale, iniziata molto prima di arrivare al fronte. In un'epoca di pacifismi di comodo, fa riflettere. E pubblico e critica se ne sono accorti.
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