Che Massimo D'Alema fosse antiisraeliano e avrebbe ben presto rovesciato gli eccellenti rapporti che il governo Berlusconi aveva instaurato con lo Stato ebraico, lo sapevamo prima ancora che si installasse alla Farnesina. Solo negli ultimi giorni, tuttavia, è emerso tutto il suo livore, culminato mercoledì in un'audizione alle Commissioni Esteri di Senato e Camera in cui ha accusato il governo di Gerusalemme di incendiare l'intero Medio Oriente, di avere dilapidato il consenso internazionale di cui godeva dopo l'aggressione degli Hezbollah e - naturalmente - di avere esagerato nella reazione. Ma la cosa più grave è che per dare corso alle sue convinzioni D'Alema, presumibilmente con l'accordo di Prodi, ha portato l'Italia su posizioni insostenibili, differenziandosi non solo da quelle di Stati Uniti e Gran Bretagna, ma anche da quelle della Germania che - si diceva ancora un mese fa - avrebbe dovuto essere il nostro punto di riferimento nell'Unione Europea. Non per nulla la sinistra radicale era così soddisfatta della sua relazione, da chiedere addirittura il richiamo del nostro ambasciatore a Gerusalemme.
L'idea del nostro ministro degli Esteri è che Israele deve cessare immediatamente la sua offensiva, perché solo dopo la fine delle ostilità e chiari accordi politici tra le parti sarà possibile provvedere all'invio di una «forza di pace» da schierare lungo il confine libanese. Peccato che questa tesi non stia in piedi, perché in totale contrasto con la realtà. Se, infatti, Tsahal interrompesse le sue operazioni prima di avere completato almeno la creazione di una fascia di sicurezza ed arrestato il lancio di missili sulla Galilea, l'Hezbollah proclamerebbe vittoria, tornerebbe a consolidarsi sul terreno e si tornerebbe virtualmente allo status quo ante. Garantire l'applicazione della risoluzione 1559 (cioè il disarmo dell'Hezbollah) toccherebbe a questo punto alla forza internazionale, che non solo dovrebbe ricevere dall'Onu un forte mandato di peacemaking, non solo dovrebbe essere composta da reparti d'élite equipaggiati con armi pesanti, ma anche essere schierata nel giro di pochi giorni («Di due ore» sostiene il premier israeliano Olmert).
Un simile spiegamento è purtroppo impossibile per almeno due ragioni. Primo, nessun Paese sembra disponibile a partecipare a una operazione così rischiosa e politicamente compromettente: non per nulla, la riunione preliminare per la formazione di questo corpo di spedizione è già stata rinviata due volte in attesa di chiarimenti. Secondo, il governo libanese, in cui la componente Hezbollah è sempre più influente e che comunque non può ignorare i desiderata di Siria ed Iran, non darà mai il suo benestare a una forza internazionale con queste caratteristiche, almeno fino a quando i guerriglieri sciiti non saranno stati sbaragliati. Il ministro degli Esteri di Beirut, Tarek Mitri, lo ha detto ancora ieri in tutte lettere.
A tutt'oggi, i tentativi compiuti da Francia e Spagna per coinvolgere Damasco e Teheran in una soluzione negoziata non sono approdati a nulla e ancora ieri il presidente iraniano Ahmadinejad ha ripetuto - oltre a chiedere come D'Alema un immediato cessate il fuoco - che l'ideale sarebbe l'eliminazione dello Stato ebraico dalle carte geografiche.
In questa situazione la «forza di pace» proposta dal titolare della Farnesina, con l'obbiettivo primario di garantire il ritorno dei profughi, sarebbe inutile esattamente come si è rivelata a tutt'oggi l'Unifil, che negli ultimi sei anni non ha mosso un dito per impedire che gli Hezbollah trasformassero il Libano meridionale in una base fortificata.
Per quanto possa dispiacere a molti, l'unica soluzione è perciò che Israele completi il suo lavoro, in modo da lasciare alla forza di interposizione solo un compito di consolidamento ed Hezbollah ed alleati siano costretti ad accettarla per evitare una disfatta peggiore. Oltre all'aspetto militare, ce n'è anche uno psicologico non meno importante. Se vuole tenere a bada anche in futuro i suoi nemici, lo Stato ebraico deve concludere questa guerra con una vittoria indiscutibile, come furono quelle del '67 e del '73. «Un cessate il fuoco immediato non porterebbe solo rischi, ma orribili certezze» ha scritto David Brooks sul New York Times. «Se Hezbollah emergesse dal conflitto ancora in forze, diventerebbe il vero padrone del governo di Beirut. I movimenti estremisti di tutto il mondo verrebbero inondati di nuove reclute. Il prestigio dell'Iran nel mondo islamico salirebbe alle stelle.
È questo che ha in mente Massimo D'Alema, quando pretende da Israele che accetti il solito compromesso?
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