L'omino timido riesce a sedurre gli Arcimboldi

Stenio Solinas

«Questa la conosco» sussurra la mia amica. «È When the Saints Go Marchin’in, la suonava pure quel trombettista anziano sempre sudato, Armstrong mi pare si chiamasse...».
«Veramente è Bella Ciao» sussurro a mia volta.
«Che c’entra Bella Ciao col jazz e con Woody Allen?» fa lei un po’ seccata.
«Non lo so, magari gli hanno detto che ci sono già state le elezioni e che ha vinto la Resistenza. Lo sai come sono gli americani, credono a tutto».
Dalla platea partono fischi e applausi, ma Eddy Davis, il banjoista e voce solista che guida la New Orleans Jazz Band, capisce che non è aria e non insiste più di tanto nell’idea iniziale di far cantare in coro la platea. Fra un Sweet Georgia Brown e un Down by the Riverside il concerto va avanti.
«Ha sentito quel grido: Viva Muti!» s’infervora dopo un po’ la mia amica. «Questi melomani... Come se all’Arcimboldi dovessero eseguire solo musica classica... Sono vecchi, antimoderni».
«Veramente hanno gridato Viva Woody!» replico sconfortato.
«Guarda che non sono sorda. Il sordo è lui. Non vedi che ha anche l’apparecchio? Certo che per essere vecchio è vecchio. Non capisco perché siamo venuti a sentirlo».
La tentazione di strangolarla è forte ma resisto. «Sei tu che ci tenevi tanto» mi accontento di replicare.
«Be’, la pensavo una serata più mondana. Ma non c’è un attore, un calciatore, un presentatore, c’è soltanto il sindaco, sai che allegria. E poi lui non ha ancora detto nemmeno una battuta, è sempre serio, appoggiato al clarinetto manco fosse un bastone. Sembra San Giuseppe...».
«Mi avevi detto che il jazz ti piaceva».
«Questo non è jazz, sono delle marcette... Come sei provinciale».
Sul palcoscenico l’omino si è tolto il maglione e si è rimboccato le maniche della camicia. Ha un paio di pantaloni di velluto color marrone, un fisico magro e batte il tempo con il piede sinistro. Gli altri membri della band si concedono qualche distrazione, sorridono, bevono, sembrano divertirsi. Lui no, se ne sta lì concentrato come se affrontasse l’esame della vita. Non è che sfiguri, ma si capisce che dove gli altri arrivano di getto lui arriva con la costanza, l’impegno, l’ostinazione. La platea è calorosa e, come dire, rispettosa. Lentamente lo spettacolo decolla.
Quelle che per la mia sciagurata amica sono «marcette» è il jazz venuto fuori dal combinato disposto della musica bandistica delle brass band, il ragtime, gli spiritual, lo stile New Orleans, insomma, delle origini, frenetico e improvvisato, popolare. Si capisce perché sia il preferito di Woody Allen. Rimanda a un’America accaldata e rumorosa, familiare e sociale, sanguigna, gonfia di umori e di colori, povera ma non disperata. L’esatto contrario dell’ambiente e della formazione di un intellettuale di Manhattan nevrotico e pieno di compromessi, fisicamente infelice, psicologicamente vulnerabile... È come andare al di là dello specchio e fare e vedere quello che al di qua non faresti e non vedresti mai: è assumere un’altra identità, un’altra pelle, un’altra razza. E illuderti per un momento di non essere più te stesso.
«Cos’è che sta dicendo?».
«Che è onorato di suonare qui agli Arcimboldi, un tempio della lirica».
«Ma non l’aveva già detto quando suonò alla Fenice?»
«No, lui non suonò alla Fenice, doveva suonare, ma ci fu l’incendio. E allora disse che non c’era bisogno di bruciare il teatro per non farlo esibire, bastava chiederglielo».
«Ma dai, mica bruciò per quello».
«Era una battuta».
«Ah. Comunque passami il programma, che almeno vedo che brani hanno suonato finora».
«Non c’è il programma? Uno paga cento euro e non sa nemmeno cosa ascolta?».
Allargo le braccia e in silenzio sopravvivo sino ai bis. Ci sono gli assoli di Eddy Davis, il banjoista già citato che è una via di mezzo fra Ernest Borgnine e Piergiorgio Prosperini, del trombettista Conal Fowkes, del sax Robert Garcia, del contrabbassista Simon Wettenhall e naturalmente dello stesso Allen, adesso addirittura in piedi e più sicuro rispetto all’inizio della serata. Il pubblico applaude e sciama soddisfatto, non c’è stato il tutto esaurito, ma c’è chi se n’è andato prima della fine.
«Era meglio se andavamo a vedere Gaspare e Zuzzurro, almeno ci facevamo due risate» dice la mia amica all’uscita.

«E poi era al Manzoni, nel centro di Milano. Ma ti pare possibile fare un teatro alla Bicocca? Un’ora per arrivare, un’ora per tornare, non c’è uno straccio di bar, se non hai la macchina sei morto. Fortuna che sta aperto ogni morte di papa».
Come darle torto?

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