Cultura e Spettacoli

LUCIAN FREUD La pittura va in analisi

Diciamo la verità: a quasi tutti il ritratto di Elisabetta II d’Inghilterra eseguito cinquanta anni fa dal fiorentino Pietro Annigoni piace (persuade, è più «bello») assai più di quello dedicato alla ormai anziana regina da Lucian Freud, artista tanto apprezzato quale raro esempio di vitalità della odierna pittura figurativa. Eppure, malgrado i gusti, non è facile stabilire quale delle due opere sia più autentica e sincera. Se Annigoni enfatizzò «all’italiana» l’incarnato luminoso e sorridente della giovane Elisabetta, il «realismo nordico» di Lucian Freud ha invece voluto forzare la fisionomia fino alla caricatura. Ne è venuta fuori una vecchia mamie dalle guance rigonfie con relative borse sotto gli occhi piuttosto porcini e ravvicinati che mal sopporta una corona sistemata sul capo alla bell’e meglio.
Che c’è di male? Per somiglianza individuale - dicono i sostenitori - i ritratti migliori di Rembrandt sono proprio quelli di vecchi senza veli: senza contare poi che l’opera di Freud trasmetterebbe le attuali «ansie e incertezze» della monarchia inglese. Può darsi. Ma a Buckingham Palace c’è voluta molta flemma per incassare questa esegesi. Ed è assai improbabile che quella immagine di Elisabetta girerà per il mondo come è capitato invece alla attraente icona di Annigoni stampata infinite volte sulle banconote e i francobolli del Regno Unito.
Questione di gusti? Sarà. Ma anche conferma di quanto è difficile stabilire in pittura una soddisfacente equazione tra «bellezza», «verità» e «realtà». L’imbarazzante mamie di Lucian Freud suggerisce domande del genere mentre compare in primo piano nella grande esposizione del pittore aperta nelle sale del museo Correr (Venezia, dall’11 giugno al 30 ottobre) con settantasei famosi dipinti e sedici acqueforti provenienti da collezioni europee e americane.
A coronare la rinomanza mondiale di Lucian Freud non è estraneo anche il fatto che egli è nipote diretto dell’illustre Sigmund, padre della psicanalisi: ma ciò non deve avere troppo giovato all’equilibrio della sua vita emotiva visto che gli si attribuiscono circa ventotto figli nati da unioni extraconiugali. Pare inoltre che il pittore ottantatreenne sia anche un uomo introverso e per ciò, dice sua nipote May Cornet, «non ama la vita familiare»: tratto non proprio originale, se paragonato alle brillanti prove di «fecondatore eterologo» addirittura superiori a quelle di un suo prediletto antesignano, il proto-espressionista Oskar Kokoschka («cosa è Kokoschka? Cocaina cecoslovacca», diceva Pablo Picasso, altro notorio mandrillo). Ciò che tuttavia conta nella pittura di Freud è la fede quasi ossessiva nel tentativo, avviato in Europa centrale ai primi del ’900, di coniugare arte visiva, psicanalisi e psicologia del profondo. Con questo credo estetico Lucian Freud è riuscito ad affermarsi nel mercato internazionale suscitando una conseguente schiera di seguaci e imitatori perfino in Italia dove il gusto e il culto psico-espressionista non ha mai avuto una gran fortuna.
D’altra parte, pur essendo eccellente, la sua pittura figurativa non è del tutto originale. Freud è fin troppo debitore al clima spirituale della finis Austriae per non avere, oltre al celeberrimo nonno Sigmund, parenti illustri anche in arte . Basti pensare ai corpi macilenti ed ai colori accesi di Kokoschka, alle febbrili figure erotiche di Egon Schiele, ai ritratti allucinati di Richard Gerstl ed Herbert Boeckl, nonché alle introspezioni visive di Arnold Schönberg (di gran lunga migliore al cavalletto che sullo spartito musicale). «Il viso è il luogo in cui i processi psichici si coagulano in forme solide»: così pensava Georg Simmel, filosofo tedesco della vita, e si direbbe che lo stile di Lucian Freud ne sia punto per punto la fedele trascrizione visiva.
Questa pesante eredità «viennese» - che anteponeva le inquietudini dell’anima alle raffinatezze estetiche di fine secolo: Klimt, Art nouveau, Jugendstil eccetera - è però aggiornata da una personale esperienza visiva a sfondo psicologico e sociale che ha risciacquato i panni sulle rive del Tamigi e del fiume Hudson. Figlio della emigrazione ebraica tedesca negli anni Trenta, Freud ha infatti assimilato a fondo le diverse «maniere di vedere» di una certa tradizione inglese (il tormentato verismo di Walter Sickert) e americana (il realismo espressivo di Jack Levine e di Jean Le Lorraine Albright). Nascono di qui le sue impietose crudezze descrittive, l’esibizione grandangolare di nudi di uomo e donna coi membri e le membra male in arnese, su letti di fortuna, lo sguardo perplesso di ritratti individuali che portano inciso sul volto il segno di esistenze «in bilico» (come nelle pagine di Saul Bellow o Philip Roth).
Si dice che Lucian Freud abbia avuto un maestro in Francis Bacon. Però quest’ultimo agiva di solito per istinto con risultati di grande freschezza visiva ben diversi dal pesante corpo a corpo psicanalitico ingaggiato nei suoi ritratti. E questo è forse il vero limite di una pittura che, dovendo per principio esprimere «qualcosa di più di una emozione estetica», cerca sempre di forzare l’immagine dei suoi soggetti allo scopo di ottenere effetti visivi caricaturali e «disturbanti».

Per sapere allora fino a qual punto Lucian Freud è riuscito nel suo intento non resta che sentire anche il parere di Sua maestà Queen Elizabeth.

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