Ma a luglio il nemico era l’inflazione

Nel luglio scorso, sulla base dei principali parametri economici e dei prodromi della tempesta finanziaria che si sarebbe scatenata di lì a poco, lo scenario che andava delineandosi era quello di un’alta inflazione accoppiata a un rallentamento - più o meno sostenuto - della crescita. Era il periodo in cui i prezzi del petrolio viaggiavano indisturbati verso i 150 dollari il barile, l’euro volava a 1,60 dollari e i prezzi al consumo di Eurolandia toccavano il picco del 4,1%. Jean-Claude Trichet ammoniva contro il «rischio di un’esplosione dei prezzi», e la Bce alzava i tassi riaffermando la propria autonomia rispetto ai palazzi della politica, ma - di fatto - mettendo in difficoltà le famiglie alle prese con le rate del mutuo e rendendo ancor più critico l’accesso al credito da parte delle imprese, peraltro già sottoposte alle conseguenze nefaste del «credit crunch».
Sono passati poco più di quattro mesi, e il mondo è scosso da una recessione ormai conclamata. Resta solo da vedere quanto durerà e di quale entità sarà. Di sicuro, le valutazioni fatte la scorsa estate - e da cui discendevano le strategie poste successivamente in essere - si sono rivelate un vero fallimento. Ora il greggio fatica a galleggiare sopra quota 60 nonostante i tagli produttivi dell’Opec (pronta a nuovi interventi), l’euro è stato ricacciato sotto gli 1,30 dollari, l’inflazione in Europa è scesa al 3,2% e si comincia a sospettare uno scivolamento nella deflazione. Nel frattempo, l’Eurotower è stata costretta a un repentino dietrofront: gli orientamenti di politica monetaria sono stati rimodellati in senso distensivo. Entro fine anno, il costo del denaro potrebbe collocarsi al 3% contro il 4,25% di luglio.
A non aver intuito in quale direzione si sarebbe mossa l’economia mondiale non è stata però solo la Bce. Nel continuo rivedere al ribasso le stime di crescita, organismi autorevoli come l’Ocse e l’Fmi ammettono implicitamente i propri errori. Per mesi, inoltre, la Casa Bianca (spalleggiata dalla stessa Federal Reserve) si è rifiutata di ammettere che gli Usa erano ormai condannati alla recessione. Salvo approvare un piano di salvataggio per il sistema finanziario da 700 miliardi di dollari, cui farà seguito ora un’altra stampella offerta al settore automobilistico dal neo presidente, Barack Obama.
Se le capacità previsionali di analisti, banche centrali, governi ed economisti hanno negli ultimi mesi mostrato la corda, è per buona parte colpa della natura inedita della crisi. I vecchi strumenti non servono più e, se usati, rischiano di portare su strade sbagliate. Vero, però l’alibi regge solo in parte. Anche a distanza di quattro mesi, appare per esempio ancora come un’inutile prova di forza la stretta decisa allora dalla Bce.

Che ha voluto usare un’arma come quella dei tassi, efficace per riportare sotto controllo la massa monetaria, ma controproducente se mirata a contrastare i rischi inflazionistici provocati dal surriscaldamento delle quotazioni del petrolio e delle materie prime. Non a caso, proprio in quei giorni, l’Opec imputò a Trichet di alimentare la corsa del barile attraverso l’aumento dei tassi.

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