L’ha cercata per vent’anni, disperatamente, una pace qualunque, senza trovarla mai. Tormenti e turbini, ossessioni e spettri. Qualche volta si era illuso che l’incubo finalmente fosse finito, spazzato via dall’ultima carta bollata. Ma era sempre la penultima. Come un richiamo implacabile, questa maledetta storia di via Poma puntualmente si ripresentava alla porta, con una convocazione, un interrogatorio, un chiarimento. E ogni volta il signor Pietrino Vanacore, che almeno da morto merita tutta la nobiltà di questo titolo importantissimo, signore, ogni volta si ritrovava a ricominciare da capo, a rivedere quel film, a riesumare quelle angosce. Ogni volta come se fosse ieri, perché il tempo che passa non allontana certi ricordi, semmai tiene accese le braci, pronto a ravvivarle in un fuoco impetuoso.
Lo aspettavano anche venerdì, per un’altra testimonianza. Rispetto a quello che gli era toccato, una sciocchezza. Ma basta una goccia, la più piccola di tutte, per far tracimare la marea. Dice il difensore del nuovo imputato, di quell’ex fidanzato Raniero Busco inchiodato dal Dna: «Vanacore ha vissuto con il rimorso questa vicenda, non perché fosse l’autore dell’omicidio, ma perché sapeva...».
Complimenti all’avvocato che ha già capito tutto. Ma chi sta fuori da questa brutta battaglia legale non può evitarsi un’altra domanda: e se invece a uccidere il povero portiere fossero stati semplicemente questi vent’anni di dolore immeritato? Dobbiamo solo pensare a cosa significhino vent’anni di titoli sui giornali, di servizi in televisione, di vicini che si parlano nell’orecchio. Tutto attorno il dubbio e il sospetto, persino di chi vuole credere all’innocenza, ma che la certezza dell’innocenza non può averla mai.
Pietrino Vanacore ha vissuto in questa bolla assurda la seconda parte della propria vita. Un continuo rincorrersi di verità presunte, sfumate, sgangherate. Ma almeno adesso il portiere suicida si merita l’unica verità pienamente riconosciuta, solennemente scritta dalla stessa giustizia che in tutti questi anni non gli ha dato respiro. Vanacore è innocente. Vanacore è totalmente estraneo al delitto.
Basta rileggere la sua storia, basta mettersi nei suoi panni, per dare il giusto peso a questo tormento. Lo fermano a due giorni dall’omicidio e resta in carcere tre settimane. Sette mesi dopo, il Gip archivia. Vanacore crede di concludere lì la sua odissea. Ma non è così. Siamo solo all’inizio. Due anni più tardi, nel ’92, il suo nome torna sui giornali per un collegamento con Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle, che abita nello stesso stabile e che la notte del delitto ha ospitato il portiere in casa propria. Il sospetto è di favoreggiamento. Un altro anno di battage giudiziario, fino a una nuova indagine che evapora: nel ’93, il Gip esclude Vanacore dai giochi «perché il fatto non sussiste». Un’altra patente di innocenza. E come se non bastasse, nel ’95 è addirittura la Cassazione a pronunciarsi sull’inchiesta, confermando che Vanacore non c’entra proprio nulla.
È a questo punto che il portiere, già logorato da cinque anni d’inferno, decide di lasciare Roma e tornare nella terra d’origine, in Puglia. Si stabilisce a Monacizzo, un villaggio sul mare. Qui conduce con la seconda moglie un’esistenza silenziosa e defilata. Cerca quella pace impossibile che s’è perduta nel sangue di Simonetta. Il sindaco del paese, Giuseppe Turco, racconta di come la sua gente avesse imparato a proteggerlo: «Quando arrivava in zona qualche giornalista, o qualche curioso, tutti rispondevano che non abitava più qui, che se n’era andato». Il sindaco, medico, era diventato suo amico: «Era un uomo mite, un uomo meraviglioso. Si faceva voler bene. Penso che fosse traumatizzato da quella vicenda, anche se di quella storia non ha mai parlato...».
Anche il diacono della parrocchia parla apertamente del fantasma romano che seguiva perennemente, senza un attimo di abbandono, il suo amico Pietrino: «Non ha mai detto una parola sulla vicenda. Ma anche se non ne parlava, a tanti anni di distanza, era ben visibile la sua tristezza. Si capiva che era un uomo colmo di sofferenza...».
Più cercava di allontanarsi da via Poma, più la memoria di via Poma si riavvicinava, con il suo abbraccio mortale. L’anno scorso di nuovo una fiammata, da quelle braci mai spente: la giustizia, con i suoi tempi e i suoi modi immutabili, torna alla carica, questa volta forte dell’esame sul Dna dell’ex fidanzato Raniero Busco. Nuovi accertamenti anche su Vanacore. Vanno a perquisire la casa in Puglia: chi può dirlo, magari pensano che il vecchio portiere conservi reperti e cimeli dell’orrendo delitto, come un souvenir di gioventù. E benché anche questa nuova tappa della via crucis si risolva allo stesso modo, con la Procura romana che decide l’archiviazione, i segni restano. Pietrino ripiomba nell’incubo. Si convince che di questa maledetta storia non si libererà mai. Nessuna pace, per lui, dopo vent’anni di bufere. Nessuna pace in questo mondo, dove non serve accumulare patenti d’innocenza per essere davvero innocenti.
Alla vigilia di un nuovo viaggio verso Roma, semplicemente per testimoniare, il signor Vanacore decide che può bastare.
Riposi in pace, adesso che può. Sulla sua tomba aleggerà per sempre un epitaffio terribile: qui riposa Pietrino Vanacore, persona per bene, ucciso da un’overdose di giustizia.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.