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Macché bavaglio liberticida: la legge anti-fango c'è dall'88

Il Codice penale già prevede il divieto di pubblicazione degli atti, solo che non è applicato

Macché bavaglio liberticida: la legge anti-fango c'è dall'88

Dall’altra sera, l’orbe intero sa che sull’Italia cala il bavaglio della legge sulle intercettazioni e trepida con noi per la morte della libera stampa nel Belpaese. La mondializzazione del dramma è merito dei cento inviati cento che la Rai ha spedito ai mondiali sudafricani. Prima della partita col Paraguay e incurante della pioggia, la centuria si è presentata nella piazza di Johannesburg che ospita le tv di tutto il mondo inalberando il cartello listato a lutto della Fnsi con la scritta: «No al silenzio di Stato». Poi, ravviati i capelli grondanti, i nostri eroi hanno dato fiato all’angoscia cantando l’Inno di Mameli. L’Usigrai - sindacato dei giornalisti Rai - nel darne notizia ha spiegato l’alto significato simbolico del canto in mondovisione: «La scelta di puntare sull’inno è stata fatta per sottolineare i valori di unità del Paese, garantita da una costituzione il cui art. 21 sta per essere violato». L’art. 21 è quello che garantisce la libera espressione del pensiero. Questa grandiosa iniziativa di denigrazione internazionale dell’Italia berlusconiana messa in atto dalla tv di Stato, è solo l’antipasto. Il clou dell’indignazione giornalistica sarà infatti espresso il 9 luglio con una giornata di silenzio stampa.

Com’è noto, il provvedimento governativo approvato dal Senato all’origine della canizza, punisce la pubblicazione di atti giudiziari coperti da segreto. Direte voi: se gli atti sono segreti, e lo sono per decisione del giudice, è ovvio che non possano essere pubblicati; perché allora tanto baccano? La risposta è: perché i soliti noti buttano l’ovvio in politica. Da anni, dai tribunali esce di tutto. Molto prima che gli stessi indagati ne sappiano qualcosa, i giornali spiattellano accuse, indiscrezioni, testimonianze, intercettazioni di questo e quello, senza che gli interessati possano abbozzare uno straccio di difesa, ignari come sono degli incartamenti noti invece ai cronisti giudiziari. Il problema è annoso e tutti, a parole, sono d’accordo per arginarlo.

Tre anni fa, dopo le intercettazioni a D’Alema e Fassino sull’Unipol («Abbiamo una banca! Facci sognare»), il governo Prodi approntò un identico provvedimento che puniva la violazione del segreto istruttorio. Come oggi, un ramo del Parlamento approvò le norme. Allora però, ci fu entusiasmo. Tutti osannarono la fine del giornalismo sregolato e il ripristino della civiltà giuridica in un Paese che aveva perso la Trebisonda. Ora che a imporre la decenza è il governo del Cav, si grida alla fine delle libertà. Gli stessi che applaudivano - dai giornali della famiglia De Benedetti alla versipelle signora Finocchiaro, inamovibile capogruppo dei senatori Pd - si stracciano le vesti come prefiche impazzite. È il classico due pesi e due misure di gente che gioca alle tre carte sulla pelle degli altri.
L’aspetto più grottesco e ridicolo, che mette in luce sinistra l’ordine e il sindacato dei giornalisti, è però questo: il divieto di pubblicare gli atti istruttori esiste da sempre. È dal 1988, anno in cui è stato introdotto il nuovo Codice di procedura penale, che l’articolo 114 punisce la comparsa sui giornali dell’attività di indagine dei Pm, segreta per definizione, prima della richiesta di rinvio a giudizio dell’imputato. Testualmente: «È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione (per esempio, Internet, ndr) degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto» (114, primo comma, più altri divieti nei commi successivi). E allora di che parliamo? Perché ci si sveglia 22 anni dopo? Vattelapesca.

La verità è questa. Il 114 è rimasto lettera morta e i governi - Prodi e Berlusconi - sono stati costretti a rinnovellare le vecchie norme dolosamente inapplicate. E perché inapplicate? Perché coloro che dovevano farlo - i giudici - hanno la coda di paglia. Se infatti avessero, com’era loro dovere, colpito i giornalisti responsabili dell’indiscrezione vietata, avrebbero dovuto individuarne le fonti e punire i ciarlieri insieme al reo. E chi sono i suggeritori della stampa? Elementare: le stesse toghe e i loro uffici. E che sono scemi che indagano su se stessi e si mandano in galera da soli? Ovviamente, non lo sono e così il 114 è finito alle ortiche. Per riassumere: il «bavaglio» c’è sempre stato ma è diventato tale solo quando a scocciarsi è stato il centrodestra.

Il 114 cpp non è la sola legge di cui stampa e magistratura si infischiano. La parte più odiosa nella violazione dei diritti dell’imputato è quella che riguarda la sua intimità. La privacy, come si dice. Dalla confusa istruttoria sugli appalti G8 abbiamo saputo dei massaggi di Bertolaso, delle abitudini sessuali di Balducci, dei due imprenditori che ridevano al cellulare per il terremoto dell’Aquila portatore di futuri affari. L’altro ieri, a Pescara, l’ex governatore abruzzese Del Turco ha abbandonato il tribunale per protestare contro il procuratore Nick Trifuoggi - il sodale di Fini - che voleva introdurre nella causa delle intercettazioni a luci rosse. Tutti elementi estranei alle imputazioni le quali riguardano, invece, presunte mazzette e imbrogli vari.

Su queste cose, i giornali ci vanno a nozze per l’incremento di copie che portano con sé. Ma anche qui ci sono divieti precisi che, però, si applicano a fasi alterne. È punito, infatti, chi divulga notizie sulle malattie, i ghiribizzi sessuali e altre cose intime delle persone. È capitato a me. Per ignoranza, ho violato la legislazione sull’infanzia. Di un personaggio tv ho scritto - nella più perfetta buona fede - che il suo era un figlio adottivo. Null’altro. Il mezzobusto si è sentito ferito e adducendo che il bimbo di tre anni, ignaro dell’adozione, avrebbe potuto essere traumatizzato dalla notizia, ha chiesto i danni. Il giornale per cui l’avevo scritto ha pagato 60 mila euro per tacitare la pretesa. Cosa dovrebbe allora pretendere Balducci per la spaventosa invasione nel suo privato con la corale vaticana? Ma potete giurarci che non sarà risarcito perché i cronisti accamperanno una scusa precisa: ci siamo limitati a pubblicare quello che compariva in atti giudiziari.

E poiché la norma - 114 cpp - che vieta la loro divulgazione è lettera morta da quattro lustri, Balducci si terrà in silenzio la sua rovina. Tale è il meccanismo perverso che lega cronisti e toghe. Ed è, signori, una barbarie.

Ecco perché, se la libertà di stampa per cui ha fatto la sceneggiata mondovisiva è questa robaccia, la centuria di Johannesburg merita di restarci a vita.

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