«Malato di letteratura, scrivo rubando parole»

Parla lo spagnolo Enrique Vila-Matas che ha fatto della metaletteratura il centro della sua narrativa: una sperimentazione «d’autore»

Enrique Vila-Matas vive a Barcellona, dove è nato nel 1948. Il volto dello scrittore richiama l’ovale pallido e olivastro di Salvador Dalí, ma egli è convinto di assomigliare piuttosto a Hemingway, fino al punto d’aver pensato di presentarsi al concorso per i sosia di Ernest che si celebra ogni anno in Florida. Ho in mano i suoi due ultimi libri tradotti in Italia: L’assassina letterata (Voland) e il recente Il mal di Montano (Feltrinelli); il primo incentrato sul ritrovamento del cadavere di uno scrittore scoperto da una donna che gli aveva inviato un suo manoscritto, il secondo un’autobiografia fittizia, un dizionario di autori, un affresco anomalo e surreale che vive e si nutre di letteratura.
Parlo con Vila-Matas e alludo alla sua scrittura onnivora che si alimenta di materiali culturali, o meglio gioca a creare con questi un rapporto ambivalente di scambio. Una narrativa che predilige il viaggio senza meta, al quale oppone l’avventura della letteratura, unica soluzione all’assurdo della vita; un testo senza inizio e senza fine, costellato di citazioni e frammenti, echi e risonanze di vari autori, reinventati o riscritti in una sorta di operazione cannibalesca e speculare. Lo scrittore mi confessa che ama i suoi libri che nascono senza una storia precisa poiché in questo caso è la scrittura a determinarla: «Non ricordo chi ha scritto che la neve sarebbe assai monotona se Dio non avesse creato i corvi. Cosa dire allora delle pagine bianche? Be’, che possono essere silenziose e terrificanti quanto noiose, ma per fortuna chi scrive ha i tenebrosi corvi neri della scrittura a ricordargli che ogni libro è un’avventura». Intimistica e sperimentale, la sua prosa esibisce un citazionismo letterario (nomi di scrittori, eteronimi, versi e frammenti prosodici, ecc.) che colloca l’autore tra i giovani protagonisti di una narrativa di ambito mitteleuropeo e panamericano. A buon diritto Vila-Matas è oggi l’esponente di un romanzo formato da un substrato metaletterario che apre simultaneamente le pagine di un’immensa biblioteca; non a caso l’omaggio a Jorge Luis Borges nell’opera dell’autore catalano è manifesto e ricorrente.
Ne Il mal di Montano lei si dedica a decifrare i diari degli scrittori amati, dando vita a una sorta di parassitismo che persegue un’opera di «autocostruzione» e di chiarezza interiore: la finzione letteraria è dunque l’unica via possibile di salvezza?
«Ho sempre più fiducia nella finzione che nell’opera letteraria che presume di avvicinarci alla verità. È vero: pratico un vampirismo che in realtà è un lavoro di autocostruzione creativo come qualsiasi altro. Leggo gli scrittori fino a trasformarli in altri autori. Non credo nella convenzione chiamata realtà e dubito di tutto ciò che vedo. Dubito del concetto di identità. “Mi chiamo Erik Satie, come tutti”: questa frase per me significa che essere Satie è irripetibile, è trovare un modo di annullarsi in un anonimato che si desidera, dove l’unico è attributo di tutti».
Letteratura e vita sono dunque in perenne conflitto oppure si fondono in un gioco misterioso?
«Mi sento estraneo - mi piace assai esserlo - in ogni parte del mondo, e soprattutto in Spagna, dove nella letteratura sono assai lontano dalle mode iberiche del momento. Tuttavia sento di provenire dalla prima radice della letteratura spagnola. C’è uno sforzo più cervantino di quello che io attuo con la mia passione di confondere vita e letteratura?».
Pavese, Calvino, Tabucchi, Magris, sono nomi ricorrenti nel lungo monologo del libro: quali sono i suoi rapporti con la cultura italiana?
«Sebbene siano diversi fra loro, credo che Pirandello, Tabucchi e Magris confluiscano tutti, come molti altri, nella mia opera letteraria. In effetti sarebbe infinita l’enumerazione dei punti in comune fra la mia vita e la mia letteratura con la grande Italia».
Perché Il mestiere di vivere di Pavese è tragicamente ancorato alla vita, mentre i diari intimi di Gide o di Gombrowicz sono più vicini alla realtà autonoma della letteratura?
«Le ultime biografie, che influenzarono notevolmente la trasformazione del genere del diario, sono ricreazioni di memorie intime, ricreazioni letterarie volutamente rivolte a un lettore. Credere nella finzione aiuta a non essere così tragicamente legato alla vita, sebbene nel fondo uno continui sempre a convivere con il tragico. Ma infine..., penso che Rosario Girando, il narratore de Il mal di Montano, insegua un obiettivo assai lecito quando cerca con il diario di costruirsi una personalità (probabilmente falsa), desiderando che anche gli altri lo vedano attraverso tale personalità costruita; con la quale vuole cancellare la supposta vera personalità, probabilmente falsa come l’altra».
Perché un narratore malato di libri non richiama, specie in quest’anno cervantino, la figura del Chisciotte?
«Quando avevo già scritto cento pagine de Il mal di Montano mi accorsi che il monologo del narratore era delirante e chisciottesco, soprattutto dal momento in cui pretendeva di rappresentare tutta la storia della letteratura: insomma, era il discorso di un folle. Decisi allora che il narratore fosse accompagnato da Tongoy, una specie di Sancio Panza, che nel suo dialogo con il protagonista cercasse di ridimensionare il discorso delirante dell’altro».
Per Lobo Antunes, che lei cita, scrivere è come drogarsi. L’io assiste a uno sdoppiamento in cui l’uomo soffre e lo scrittore pensa come approfittare di questa sofferenza per il suo lavoro: la letteratura è dunque il «male» necessario per vivere?
«Nel mio prossimo romanzo dal titolo Irse (Andarsene), che pubblicherò il prossimo settembre, parlo del tema della scomparsa.

Parlo di “scrivere per scomparire”, come diceva Franz Kafka e anche Maurice Blanchot, che fu chi meglio di tutti affrontò questo problema e lo portò - intellettualmente parlando - fino alle estreme conseguenze; passeggiò con la scrittura della scomparsa sul bordo dell’abisso, cosciente che tutto, assolutamente tutto, sarà cancellato. Ma prima che tutto sia scomparso, io sento che scrivo, cioè che vivo».

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