Le manovre della Merkel Berlino ci vuole poveri

Noi soffriamo per la crisi, la Germania guadagna più di 50 miliardi di euro l'anno. Fiasco storico per l'asta dei Bund. Sugli eurobond la cancelliera è isolata

Le manovre della Merkel Berlino ci vuole poveri
Circola un’idea tanto diffusa quanto falsa sui vantaggi che l’Ita­li­a avrebbe grazie alla sua indisci­plina fiscale. E di come la sobria Germania paghi il conto di questo nostro lassismo. Dimostreremo con i numeri come sia esattamen­te il contrario. In buona sostanza i tedeschi stanno guadagnando un mucchio di quattrini, grazie alla tempesta finanziaria che è in cor­so. Si tratta di almeno 50 miliardi di euro l’anno. E ieri l’asta andata a male dei Bund tedeschi ha fatto suonare il primo campanello d’al­larme: il cancelliere Merkel non può continuare per questa strada. I titoli dei giornali (oggi un po’ meno grazie al silenziatore Mon­ti) parlano di spread dell’Italia che viaggia intorno alla quota stel­lare del 5 per cento. Lo spread è un differenziale. Si tratta di una sem­plice sottrazione. Un titolo di Sta­to italiano a dieci anni viene ven­duto dal Tesoro al 7 per cento, un titolo di pari durata emesso da Ber­lino rende il due per

cento: la differenza è appunto del 5 per cento. Un costo in più che le casse dello Stato italiano devono sopportare per finanziare il proprio debito.

Ma i differenziali si calcolano su due valori: il tasso italiano che sale, ma anche quello tedesco che scen­de. Quando un mercato come quel­lo finanziario si trova nella bufera, gli investitori si affrettano a compra­re la merce più sicura, cioè quella te­desca. La sicurezza è dovuta al gra­do più o meno alto che l’emittente Berlino alla scadenza ripaghi il suo debito. Itecnicichiamanoquestofe­nomeno flight to quality. I tedeschi sonotalmentesicuridipoterpiazza­re la propria merce a buon prezzo che ieri hanno messo in piedi un’asta che non è stata del tutto sot­­toscritta. Il motivo è semplice. Pre­tendevano di vendere titoli di Stato che per dieci anni rendessero meno del2percento.Quandotuttal’Euro­pa­deve riconoscere almeno il dop­pio o il triplo. L’altra faccia della me­daglia è che, grazie alla bufera che si è incentrata sull’Italia,e al rinnova­to interesse per i titoli tedeschi, la Germania si trova oggi nella fortuna­t­a condizione di pagare il proprio de­bito circa dieci miliardi in meno al­l’anno rispetto a quanto, in condi­zioni di mercato normale, dovreb­be fare. La morale è che l’Italia do­vrà fare una manovra aggiuntiva in più, e i tedeschi avranno un tesoret­to da custodire con cura. Il calcolo dei dieci miliardi è presto fatto.Il tito­lo a cinque anni tedesco da giugno ad oggi ha guadagnato circa il 6-7 per cento e dunque ridotto il suo ren­dimento. E siccome i tedeschi deb­bono rinnovare ogni anno circa 200 miliardi di euro di titoli pubblici (parliamo solo delle scadenze due­cinque- dieci anni) arriviamo al ri­sparmio di almeno una decina di miliardil’anno.Lunedìilsettimana­le Der Spiegel , quello che faceva la copertina con la P38 nel piatto di spaghetti, scriveva: «Sotto certi aspetti, i conti dell’Italia godono di una salute decisamente migliore» e ricordava come mentre a Roma si chieda rigore nei conti, a Berlino sti­ano aumentando la spesa pubbli­ca. A Natale verrà ripristinato un b­o­nus per i dipendenti pubblici che ha un costo di 500 milioni di euro. Chia­ro il concetto? Noi abbiamo un avan­z­o primario doppio rispetto a quello tedesco, ma un deficit più forte per il costo del nostro debito pubbli­co. Egrazieallarigiditàdeglistessi­te­deschi che non vogliono Eurobond e interventi massicci della Bce, que­s­to costo non solo è destinato ad au­mentarepernoi, masoprattuttoadi­minuire per loro. E con questi dieci miliardidiminoricostisullorodebi­to aumentano la spesa pubblica. Fa­voloso.

Ma non basta. Gli effetti sulla finanza pubblica sono poca cosa rispetto a quelli che questa tempesta finanziaria, che non viene curata, ha sulle imprese italiane. Secondo gli ultimi dati Abi lebancheitalianehannoprestatoal­le imprese non finanziarie e alla fa­miglie la bellezza di 1.700 miliardi di euro (pari al nostro Pil). Più della metà di questi prestiti (circa mille miliardi di euro) è erogato a favore delle imprese per le quali il danaro a credito è un costo. L’aumento dei tassi di interesse diventa per il no­stro sistema produttivo deflagran­te. Le ultime rilevazioni parlano di un tasso medio del 4,2 per cento. Per le imprese la situazione oggi è molto peggiore: è già un risultato l’ottenimentodiunprestitoe,quan­do è ottenuto, i tassi girano intorno a quota 6-7 per cento. Rispetto al 2,5 per cento dei tassi medi per le impre­se tedesche, si crea un altro spread (ben più importante di quello pub­bl­ico sempre pubblicizzato sui gior­nali) che nelle più ottimistiche delle visioni è di quattro punti. Il differen­ziale di tassi rispetto ai tedeschi co­sta dunque al sistema delle imprese italiane la bellezza di 40 miliardi di euro l’anno. Per farla semplice un produttore italiano rispetto ad un concorrente tedesco non solo ha unaburocraziapeggiore, infrastrut­ture meno adeguate, tasse più alte, ma ora anche costi per interessi de­cisamente più sostenuti. In sostan­za competiamo non con una, ma con entrambe, le braccia dietro alla schiena. Il rischio di beccarsi schiaf­fi dai c­oncorrenti di Berlino è diven­tata una certezza.

La grande crisi fi­nanziaria ci vede danneggiati mol­to più di quanto lo siano i tedeschi, che anzi stanno traendo un grande vantaggiovendendoilpropriodebi­to (quando ci riescono) a tassi im­possibili in condizioni normali, e le cui imprese hanno costi decisamen­te inferiori alle nostre. Per i conti pubblici e privati della signora Me­rkel questa crisi fa bene. Molto be­ne. Ma deve stare attenta: come di­mostra l’asta dei Bund di ieri, la cor­da si può spezzare.

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