Mariella Devia: dopo trent’anni lascio «Lucia di Lammermoor»

Stasera il celebre soprano dà l’addio al personaggio di Donizetti incarnato 350 volte

Piera Anna Franini

da Milano

È la Lucia (di Lammermoor) di riferimento. Un ruolo che ha incarnato almeno 350 volte a partire dal 1973, l’anno in cui, nei panni di Lucia, vinceva il concorso Toti Dal Monte di Treviso. Ora, Mariella Devia, soprano dalla voce suadente, ha deciso di riporre questo ruolo nel cassetto. E per l’addio ha scelto l’edizione da stasera alla Scala, la Lucia di Donizetti diretta da Roberto Abbado, secondo il noto allestimento di Pier’Alli. Ritornerà alla Scala in aprile, per un recital di canto condiviso con Sonia Ganassi; quanto all’opera spunta un progetto, ma si va oltre il 2007.
Perché l’addio?
«Sono stata Lucia tantissime volte. È difficile dopo trent’anni trovare nuove motivazioni, ora voglio concentrarmi su altri personaggi, indossare i panni di donne più mature, in linea con la mia età come Maria Stuarda. Sto poi preparando il debutto in Anna Bolena e nel Pirata».
Lucia ha segnato il debutto di carriera. Avrà anche un rapporto affettivo con il personaggio...
«I legami affettivi si creano con tutti i ruoli, ci si dedica così tanto... E poi, l’identificazione con questo personaggio non viene tanto da me quanto dal pubblico».
Alla Scala fu Lucia nel 1992, in questa stessa produzione: la trova ancora attuale?
«Recentemente ho visto Lucie più moderne. Tuttavia, devo dire che l’allestimento di Pier’Alli rimane interessante. Mi piacciono questi costumi importanti, la gestualità ampia così adatta al palcoscenico del Piermarini. Condivido l’idea di rovine che traducono il disfacimento psicologico».
La Lucia più sgraziata, la più curiosa e quella che sta nel suo cuore...
«La più brutta è quella del Metropolitan, fatta di bare. Lì tengono vive le produzioni per decenni eppure questa edizione venne subito archiviata. La più curiosa è quella di Parigi, ambientata in un laboratorio di studio di malati di mente che poi si faceva palestra, campo militare... Al pubblico non piacque e devo dire neppure a me, però era curiosa. Nel cuore, poi, ve ne sono tante: diciamo che c’è Lucia».
La cosa che più ha amato di questo personaggio?
«La vocalità di un ruolo così etereo. Lucia è una creatura angelicata, prevaricata da figure maschili che incombono su di lei, è un uccello in gabbia che sbatte le ali contro le continue forzature, trova la libertà solo nella pazzia. Donizetti racconta questi sentimenti in modo geniale, c’è una perfetta aderenza fra aspetto musicale e moti dell’animo. La glassarmonica che con il suono agghiacciante accompagna la scena della pazzia traduce appieno l’immagine di una mente stravolta, di un’atmosfera surreale».
Chi sono le sue eredi?
«Non vado mai a teatro, ho sentito ben poche Lucie... Menzionerei Patrizia Ciofi, nel cast che qui alla Scala si alterna al mio».
Una Lucia di riferimento nella storia?
«La Callas e la Scotto».
Ha già fatto Lucia con Roberto Abbado?
«Sì, a Parigi, una decina d’anni fa».


Chi sono, al momento, i grandi direttori che sanno e che vogliono lavorare con i cantanti?
«Io faccio un repertorio che non piace a tutti i direttori. Di sicuro, rispetto a Donizetti o a Bellini, Verdi dà loro più soddisfazione. Fra i direttori amanti del belcanto rientrano Roberto Abbado e Campanella».

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